Il presente lavoro costituisce frutto di una ricerca condotta nell’ambito del PRIN 2015 sul tema “Finanza pubblica e fiscalità per la salvaguardia e la promozione del patrimonio culturale storico ed artistico”, al quale partecipano l’Università di Chieti-Pescara, l’Università di Teramo, l’Università di Firenze e l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
In uno scenario di progressiva affermazione della fiscalità neutrale, l’articolo analizza l’Art Bonus, collocandolo nel “sistema” delle agevolazioni fiscali volte alla promozione del mecenatismo culturale. Dopo aver ricostruito le ragioni di successo (efficacia “informativa”, accountability e snellezza procedurale), vengono esplorati i profili di criticità, disegnando, da ultimo, ipotesi di estensione e implementazione dell’istituto.
In a scenario of progressive endorsement of fiscal neutrality, the article analyses the Art Bonus, placing it in the “system” of tax breaks aimed at promoting cultural patronage. After having analysed the reasons (“information” effectiveness, accountability and procedural streamlining), it explores the critical profiles and, finally, outlines proposals for extending and implementing this mechanism.
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1. Premessa - 2. Cultura e fiscalità: dall’esoterismo alla comunicazione “democratica” - 3. Semplificazione e accountability - 4. Il bene “fiscalmente” meritevole tra responsabilizzazione e concorrenza - 5. I limiti: soggetti, beni, territori - 6. Riflessioni sistematiche sulla fiscalità promozionale per la cultura: l’art. 9 Cost. e la “fuga” dall’art. 53 Cost. - 6.1. Segue: vicende “esogene” giuridicamente apprezzabili e “ritorno” all’art. 53 Cost. - 6.2. Segue: l’Art Bonus nel “sistema” - 6.3. Segue: Art Bonus, mecenatismo e sussidiarietà orizzontale - 7. Verso un Art Bonus 2.0? - 7.1. Segue: la “reificazione” dell’Art Bonus: naturale epilogo - 8. Conclusioni - NOTE
Nonostante l’effettiva introduzione della c.d. flat tax sia ancora eventualità chimerica, non v’è dubbio che l’ordinamento, per bilanciare la promessa riduzione della pressione fiscale, da attuarsi per lo più intervenendo sulle aliquote, debba volgere verso il modello della fiscalità neutrale, abbattendo drasticamente le agevolazioni esistenti. Sembra, dunque, inevitabile che la fiscalità promozionale (volta alla realizzazione di politiche sociali) venga relegata in confini angusti, con un prevedibile “ritorno” alla neutralità. Il modello liberale della fiscalità neutrale, diffuso negli anni ’50-’70, ha predominato, sino ai tempi più recenti, anche a livello europeo, sulla scia dell’influenza anglosassone e della concezione di una politica fiscale non strumentale ad obiettivi di politica economica. È noto che la disciplina europea degli aiuti di Stato, quantomeno sino al 2012 [1], è stata animata dall’esigenza di sterilizzare qualsivoglia interferenza fiscale nella politica economica unionale, preservando la concorrenzialità del mercato unico [2]. Tuttavia, a partire dalla Comunicazione della Commissione in tema di modernizzazione della disciplina mercantilistica degli aiuti [3], senza rinnegare apertamente il consolidato approccio neutrale, si è instillata la consapevolezza che la tutela della concorrenza non sia un obiettivo assoluto ed incondizionato, ma debba essere bilanciata con altri interessi, altrettanto tutelati dal diritto dell’UE. L’intervento pubblico nell’economia è, quindi, funzionale a realizzare gli obiettivi dell’Unione [4]. In questo più ampio contesto evolutivo è, dunque, distonico che proprio l’Italia, da sempre tra i paesi che più hanno fatto ricorso alla funzionalizzazione della leva fiscale alla politica economica, stia ripiegando verso un modello di fiscalità neutrale. Ripiegamento ancor più singolare, giacché animato non dall’obiettivo di evitare distorsioni concorrenziali, ma, esclusivamente, dalla volontà di ridurre il carico impositivo. Vi è, quindi, da chiedersi, in tale scenario, ad oggi solo ipotizzato, quali delle agevolazioni esistenti meritino di “sopravvivere” al prevedibile – più o meno prossimo – [continua ..]
Una delle principali ragioni del successo dell’Art Bonus offre lo spunto per soffermarsi brevemente sui rapporti tra “tecnica tributaria” e “comunicazione”, sul presupposto che la prima senza la seconda sia destinata a rimanere un sapere esoterico tanto elitario quanto inefficace. L’introduzione dell’incentivo è stata accompagnata da una delle campagne di informazione – se non di vero e proprio marketing – più riuscite in ambito tributario. Non v’è dubbio che la “comunicazione” dell’Art Bonus, curata minuziosamente, ha giocato un ruolo preponderante nella percezione pubblica del vantaggio fiscale. Lo Stato promotore dell’incentivo ha, a tutti gli effetti, pubblicizzato la propria offerta, esaltandone qualità e benefici per i fruitori, attraverso un crowdfunding imponente a vantaggio di selezionati interventi culturali. Il “prodotto” è stato, infatti, studiato in ogni singolo dettaglio, a cominciare dal logo [14] che già introduce alla “benizzazione” dell’Art Bonus, presentato ed offerto come in una pubblicità commerciale. L’opera divulgativa si è, quindi, materializzata nella creazione di un sito ad hoc [15], agevolmente consultabile, e contraddistinto da un’apposita sezione dedicata alla “comunicazione”. Sono stati ideate e diffuse mirate campagne video e radiofoniche [16], brochure, cartellonistica, eventi di presentazione e promozione della misura, all’efficace grido di “Art Bonus. Siamo tutti mecenati”. La scelta dello slogan palesa la finalità dell’incentivo e della sua campagna: “volgarizzare” la sacralità della cultura e, con essa, l’elitarismo di chi la sovvenziona. Risponde, all’esigenza di chi ritiene che anche l’approccio alla cultura non possa che plasmarsi in funzione del mondo che cambia, che nessun sapere (in cui ovviamente si può includere tanto la conoscenza del patrimonio culturale quanto la fiscalità del medesimo) possa più trincerarsi nella rocca dei corporativismi, ma debba aprirsi, sviluppare una partecipazione attiva [17]. Disvela una scelta di campo netta che sovverte i tradizionali rapporti Stato-cittadino, mettendo quest’ultimo al centro della scena, coinvolgendolo – come vedremo [continua ..]
La straordinaria risposta alla chiamata alle arti è in gran parte legata anche alla semplicità procedurale, che inaugura il “ripudio” della palude burocratica in cui, solitamente, si arenano gli aspiranti fruitori dell’agevolazione fiscale. In estrema sintesi, accedendo al portale dedicato è possibile selezionare gli interventi meritevoli di supporto, peraltro mediante appositi “filtri” di ricerca che considerano il beneficiario (necessariamente pubblico, come vedremo) [24] anche sulla base della collocazione geografica dell’iniziativa che si intende promuovere [25]. Sulla base dei criteri prescelti vengono, quindi, elencati gli interventi finanziabili e, per ciascuno, si apre una scheda descrittiva in cui, tra gli altri elementi, figurano, da un lato, il costo, dall’altro il progressivo aggiornamento delle erogazioni liberali canalizzate. Effettuata la scelta dell’intervento da finanziare, il contribuente è tenuto a contattare l’ente per concordare i dettagli dell’erogazione, fermo restando che il pagamento non potrà che avvenire con modalità tracciabile e l’analitica indicazione della causale [26]. Attraverso il portale il mecenate comunicherà quindi la donazione effettuata, in modo da consentire sia l’incrocio dati, sia l’aggiornamento del finanziamento ricevuto da ogni singolo intervento e, in via facoltativa, potrà render pubblica la sua erogazione, figurando nella pagina di ringraziamento dedicata. All’estrema semplificazione, che di fatto si può riassumere nell’effettuazione del pagamento, nell’onere comunicativo e nell’obbligo di conservazione della documentazione relativa, si accompagna un meccanismo di accountability solitamente gradito a chi sovvenziona [27]. I beneficiari dell’elargizione sono, infatti, tenuti ad una serie di obblighi di trasparenza: la comunicazione mensile al MIBAC circa l’ammontare delle erogazioni ricevute; la pubblicazione di tale ammontare, nonché della destinazione e dell’utilizzo delle erogazioni stesse, sia «tramite il proprio sito web istituzionale, nell’ambito di una pagina dedicata e facilmente individuabile», sia tramite il portale dell’Art Bonus in cui vengono aggiornato in tempo pressoché “reale” lo stato avanzamento [continua ..]
La tecnica di individuazione del bene culturale agevolabile rispecchia, in parte, la filosofia di fondo della misura, nel segno della partecipazione “consapevole” e attiva del mecenate e della responsabilizzazione dell’ente beneficiario. È noto che ciò costituisce una delle problematiche cruciali, giacché la definizione di ciò che può considerarsi “cultura” è contingente e relativa, nel tempo e nello spazio e, soprattutto in tempi recenti si sta assistendo ad una dilatazione vorticosa della nozione: si pensi, in ambito Unesco, al processo di espansione del patrimonio culturale immateriale, che è giunto ad includere talune danze marziali, carnevali, e perfino la pizza napoletana o la dieta mediterranea. Il panculturalismo non è, tuttavia, un obiettivo auspicabile in quanto una nozione di cultura senza confini rischia di tradire l’obiettivo del supporto e della promozione di beni effettivamente meritevoli di protezione. Dal punto di vista tributario, anche solo per ragioni di sostenibilità finanziaria, i regimi di favore non potrebbero ovviamente coprire tutto ciò che può essere considerato “cultura” a livello Unesco o anche, semplicemente, a livello nazionale, ma il legislatore fiscale è chiamato a selezionare i beni meritevoli. Un primo cruciale profilo di selezione investe il soggetto titolare del bene culturale: alcune agevolazioni fiscali e, in particolare, quelle volte a favorire il mecenatismo nel settore, tendono a differenziare in ragione della natura pubblica o privata del bene oggetto di liberalità. La ragione per cui vengono spesso preferiti i soli beni pubblici, rispetto a quelli privati, risiede nella necessità di minori controlli per le liberalità a favore dei primi, essendo, invece, maggiore il rischio di abusi sui secondi. Oltre a ciò, sui beni privati si pone un ulteriore problema di selezione: mentre cioè i beni culturali pubblici sono già individuati come tali; per quelli privati occorrerebbe un criterio per distinguere quelli di valore “culturale” rispetto a quelli che non lo sono. Vero è che sovente potrebbe essere sufficiente il rinvio al bene culturale individuato come tale in sede amministrativa, che, spesso implica, in capo al titolare un regime di vincoli [29] e, dunque una serie di limitazioni alla pienezza del diritto [continua ..]
La snellezza procedurale per la fruizione del beneficio, come anticipato, fa da contraltare alla “cerchia” dei beni agevolati [35], ossia esclusivamente quelli pubblici [36]: l’eventuale estensione ai beni privati, oltre a ostacoli di sostenibilità finanziaria, imporrebbe quasi certamente appesantimenti burocratici volti a scongiurare e sanzionare possibili abusi, oltre al rischio di trasformazione dell’agevolazione in extra-profitto. Vale a dire che sarebbe arduo distinguere i beni privati “bisognosi” di sovvenzione da quelli perfettamente in grado di autofinanziarsi e magari profittevoli, per i quali eventuali erogazioni liberali si convertirebbero in ulteriori profitti [37]. Per quanto ciò sia innegabile, tuttavia, una volta ricostruito lo statuto giuridico del bene culturale – in quanto tale, a prescindere dalla titolarità pubblica o privata – quale bene ontologicamente pubblico (“per fruizione”) [38], ben difficilmente risulta giustificabile la distinzione basata sul criterio dell’appartenenza [39]. Già una rapida scorsa alla lista degli interventi agevolabili evidenzia curiose distorsioni nella selezione [40], e la stessa prassi amministrativa, sinora, ha mostrato di voler allentare il rigorismo letterale della norma, interpretando in senso estensivo l’ambito di applicazione soggettivo [41]. È prevalsa, innanzitutto, un’interpretazione “sostanzialista” dell’appartenenza, là dove, pur a fronte della titolarità formale privata, vi siano indici rilevatori di un’origine o di un controllo pubblicistico o, ancora, di finanziamento mediante risorse pubbliche, del rispetto di regole pubblicistiche o, semplicemente, della natura pubblica del patrimonio culturale gestito [42]. Ancora, l’Art Bonus è stato esteso alle erogazioni a favore di associazioni private incaricate del restauro di beni pubblici, così spostando ancor più nettamente l’agevolazione dal soggetto all’oggetto [43]. L’esperienza applicativa mostra, dunque, una certa insofferenza verso la citata limitazione, tentando di superarla, ancorché nei limiti consentiti dall’interpretazione sostanzialista che dal soggetto (che ben può essere privato) sposta l’attenzione sull’oggetto (bene [continua ..]
L’analisi dell’incentivo induce a soffermarsi brevemente sulla cornice giuridica della fiscalità promozionale nel settore culturale, per meglio cogliere, dal punto di vista sistematico, lo spazio “coperto” dal legislatore dell’Art Bonus, nel tracciato che si dipana tra gli artt. 9 e 53 Cost. Il fondamento costituzionale dell’intervento statale (finanziario e fiscale) in favore della cultura e del patrimonio storico-artistico, si rinviene, quasi meccanicamente, nell’art. 9 Cost. [51]. Non è, tuttavia, tra i propositi di queste riflessioni sistematiche indugiare sulla norma costituzionale, se non per precisarne i rapporti con l’art 53 Cost., anch’esso sovente invocato per giustificare benefici fiscali anche con riferimento al patrimonio culturale. Sorprende, infatti, soprattutto nella giurisprudenza costituzionale, l’itinerario argomentativo secondo cui misure sottrattive del prelievo a favore del patrimonio culturale privato troverebbero fondamento in manifestazioni di “ridotta capacità contributiva” [52]. Siffatta ipotesi ricostruttiva, in termini assoluti, non può essere seccamente condivisa, dovendosi, invece, rammentare come confligga con la stessa natura dell’“agevolazione fiscale”, quale misura sottrattiva del prelievo [53], ma giustificata da ragioni ad esso estranee [54], riconducibili a principi costituzionali diversi dall’art. 53 Cost. Per contro, accedendo alla tesi avversata, che pretenderebbe di ricondurre il fondamento delle fattispecie agevolative nell’alveo dell’art. 53 Cost., si finisce per negare alla fiscalità proprio il ruolo promozionale che dovrebbe assumere ex art. 9 Cost., relegandola alla funzione di mero strumento di riparto ex art. 53 Cost., in una concezione di fiscalità neutrale, preponderante a livello mondiale, ampiamente diffusa a livello europeo, ma qui non condivisa. Giustificare l’intervento statale solo se ed in quanto “correttivo” rispetto a fattispecie espressive di minor capacità contributiva contraddice la stessa natura dell’agevolazione in quanto tale, esclude ogni apprezzamento di meritevolezza e, di fatto, nega un ruolo alla fiscalità promozionale in quanto tale: l’intervento correttivo rappresenta la “giusta” imposizione, rimanendo [continua ..]
Nell’ordito costituzionale, certamente l’art. 9 Cost. giustifica giuridicamente, ancorché, come detto, sulla base di una ratio extrafiscale, le politiche finanziarie e fiscali a sostegno del settore culturale. Nondimeno, le ragioni dell’intervento statale risiedono anche al di fuori del diritto e, precisamente nel substrato economico-finanziario delle “diseconomie” e della “malattia dei costi”. Quanto alle prime, è noto che sin da Smith, la teoria economica ha considerato che produzione o consumo generano esternalità nei confronti di altri beni o soggetti, quando, in particolare, il prezzo del bene non considera tutti costi e benefici. Il che produce esternalità positive, quando vengono avvantaggiati soggetti che non hanno pagato nulla, ovvero, nel caso opposto, esternalità negative o diseconomie esterne, quando, viceversa, si determinano effetti negativi, solitamente generati dall’attività di un soggetto su altri, che ne subiscono gli effetti, senza trarne alcun beneficio. Dal punto di vista economico, le esternalità rappresentano un fattore negativo di distorsione del mercato, qualora quest’ultimo non provvede ad attribuire loro un valore, in modo da ripristinare l’ottimale allocazione delle risorse ed evitare un fallimento del mercato (c.d. market failure). Da qui la necessità di un intervento regolatore ed il “soccorso” giuridico offerto a fronte di un’emergenza economica. Uno degli strumenti individuati per fronteggiare le diseconomie è, infatti, il prelievo tributario che internalizza il costo delle esternalità negative: da nome del loro “inventore”, le c.d. imposte pigouviane rappresentano, com’è noto, il corrispettivo che il contribuente versa allo Stato in misura necessaria a internalizzare la diseconomia [55]. Tuttavia, il modello pigouviano, ampiamente utilizzato nella fiscalità ambientale per internalizzare il danno arrecato all’ambiente, è di difficile trasposizione in ambito culturale, laddove risulta più complesso individuare tanto il substrato economico necessario all’individuazione della base imponibile del tributo, quanto il rapporto causale tra l’attività dei soggetti passivi ed il danno [56]. La leva finanziaria o fiscale può, invece, più [continua ..]
L’intervento pubblico nel settore culturale attraverso misure sovvenzionali può discendere da motivazioni economico-finanziarie giuridicamente apprezzabili in termini di minor capacità contributiva ex art. 53 Cost. (par. 6.1), ovvero direttamente dall’art. 9 Cost. e, quindi, da un principio costituzionale extrafiscale, estraneo al perimetro dell’art. 53 Cost. (par. 6). Per mera semplicità espositiva potremmo parlare di misure “correttive” con riferimento alle prime e “non correttive” con riferimento alle seconde. La distinzione non è meramente teorica, giacché, nella ricostruzione qui proposta, individuare la specifica ratio dell’intervento pubblico conduce a conseguenze ben precise. Qualora, infatti, le misure fiscali e finanziarie – apparentemente agevolative [66] – siano di tipo “correttivo” e, quindi, funzionali a correggere diseconomie o costi malati, esprimendo ex art. 53 Cost. una minor capacità contributiva, si fuoriesce dalla stessa nozione tecnica di “agevolazione” e, con essa, dalla finanza e dalla fiscalità promozionali. L’attuazione dell’art. 53 Cost. altro non è che espressione del corretto criterio di riparto costituzionalmente imposto ed il relativo intervento legislativo, pur originando da vicende economico-finanziarie, diviene giuridicamente doveroso. Per contro, le misure sottrattive non “correttive”, appartengono al mondo delle agevolazioni in senso stretto, essendo espressive non già del riparto “doveroso” ex art. 53 Cost., bensì di altri principi costituzionali e, in particolare, per quanto qui d’interesse, dell’art. 9 Cost.: si entra, per tale via, nello spazio d’intervento della fiscalità funzionale e promozionale. Ossia della fiscalità che non si limita al reperimento di risorse nel rispetto del “doveroso” criterio di contribuzione sancito dall’art. 53 Cost., ma che persegue interessi di natura extrafiscale, selezionandone la meritevolezza e orientando le scelte dei contribuenti. E qui, nel rispetto dei canoni di ragionevolezza ed uguaglianza, si ricade nel margine di discrezionalità lasciato al legislatore. Peraltro, senza poter qui sviluppare più articolate considerazioni, la [continua ..]
Il ruolo assunto dai mecenati, accennato in parte nelle righe finali del precedente paragrafo, in parte nel riflettere sull’appartenenza del bene culturale, merita di essere ora proiettato nel quadro dei principi costituzionali: come detto, sono, ad un tempo, “filtro” dell’obiettivo legislativo e “fulcro” della tecnica agevolativa. Essi sono espressione della “privatizzazione” dell’approvvigionamento finanziario alla cultura cui dovrebbe, ordinariamente, provvedere lo Stato: concorrono, con le proprie elargizioni, al soddisfacimento di scopi di interesse generale, qual è, per l’appunto, quello di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, riconosciuto a livello costituzionale, dal Codice dei beni culturali e del paesaggio [72], e, da ultimo, per quanto d’interesse, dal D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (c.d. Codice del Terzo settore) [73]. Il mecenatismo culturale traduce così, dal punto di vista finanziario, la sussidiarietà orizzontale ex art. 118, comma 4, Cost. [74]: il privato sopperisce alla penuria di risorse pubbliche funzionali alla salvaguardia di un interesse generale di rango costituzionale. Il riconoscimento del credito d’imposta certifica questo “accollo”, in capo al mecenate, di una funzione tipicamente pubblica, secondo una tradizione “storica” che affonda le proprie radici nell’evergetismo del mondo antico [75]. Mentre, tuttavia, nelle città romane era diffusa l’idea che “il ricco” dovesse cedere parte della spropria ricchezza per il bene della comunità, ricevendone in cambio lode e onore [76], il legislatore dell’Art Bonus ha inteso “delegare” la funzione di finanziamento culturale al più ampio numero possibile di mecenati, “democratizzando” una propensione tradizionalmente considerata appannaggio di grandi contribuenti. E, al contempo, ha inteso “delegare” in modo non solo diffuso, ma anche sistematico tale funzione, individuando nel privato un attore stabile delle politiche finanziarie a favore della cultura [77]. In questi termini l’Art Bonus è un meccanismo alternativo di spesa pubblica filtrata dall’apporto dei mecenati che, fruendo del credito, vedranno la restituzione nel triennio del “prestito” effettuato in favore di beni e soggetti [continua ..]
Venendo alla fase più propositiva del presente lavoro, alla luce dei citati profili di criticità, è possibile tratteggiare talune proposte, volte a perfezionare l’istituto in chiave evolutiva. L’estensione applicativa dell’Art Bonus si scontra con un’inevitabile valutazione di fattibilità, data anche dal consistente vantaggio sotto il profilo puramente quantitativo (65% da “monetizzare” nel triennio) e, certamente, la stessa scelta dello strumento fiscale, rispetto a fattispecie alternative (es. detrazioni), denuncia una faticosa ricerca di coperture finanziarie per mantenerne inalterata l’appetibilità In primo luogo, la limitazione soggettiva ai beni culturali pubblici, potrebbe essere superata, nell’ambito immobiliare, estendendo la misura quanto meno ai beni vincolati, là dove la meritevolezza è stata, dunque, già oggetto di valutazione da parte dell’amministrazione. In tal caso, sarebbe necessario un coordinamento con l’attuale regime agevolativo su redditi fondiari/Imu [78], svincolato da ogni logica premiale, in quanto concesso a prescindere dall’effettivo assolvimento degli oneri manutentivi gravanti sul proprietario di immobile o sull’apertura al pubblico del bene. Non sarebbe, quindi, illogico, rimuovere il vigente incentivo, per sostituirlo con il credito d’imposta, eventualmente contenuto quantitativamente rispetto alla misura (estremamente vantaggiosa) del 65% o con una maggiore dilazione rispetto al triennio. Si tratterebbe, di fatto, di potenziare il bonus ristrutturazioni per immobili vincolati, sostituendolo con la più articolata struttura del “crowdfunding” sotteso all’Art Bonus. Un’alternativa, certamente meno immediata, potrebbe essere quella di attingere ad un regime similare a quello operante in Danimarca [79], in cui vige un meccanismo di fatto “autogestito” dall’Associazione dei proprietari di immobili storici selezionati (c.d. BYFO), cui viene di fatto esternalizzata dalle autorità pubbliche locali tanto la fase di selezione degli immobili suscettibili di essere inclusi nel regime, quanto, poi, tutto l’iter procedurale, correlato alla fruizione delle agevolazioni fiscali e dell’ottemperanza agli oneri manutentivi. L’Associazione è autofinanziata attraverso i contributi dei singoli [continua ..]
Con riferimento alle problematiche più strettamente applicative derivanti dall’impossibilità di fruire del credito d’imposta per i soggetti che non presentano la dichiarazione o che non abbiano capienza sufficiente a “spendere” il bonus, si potrebbe ipotizzare un meccanismo di circolazione del credito, come già è previsto per fattispecie similari. Si compierebbe il naturale epilogo di un’agevolazione già “reificata”, in quanto, a tutti gli effetti, “lanciata” e promossa come un “bene”, un prodotto commerciale (retro, par. 2). La circolazione del credito d’imposta consente la fruizione anche ai soggetti non residenti e non tenuti ad alcuni obbligo di versamento delle imposte reddituali in Italia, così intercettando il mecenatismo internazionale, con un effetto rafforzato qualora, per le erogazioni più consistenti, venisse abbinata la possibilità di una “sponsorizzazione ultra-tipica” (supra, par. 7). Nondimeno, ciò impone una breve riflessione sulla necessità o meno di ancorare l’istituto ad un legame con il territorio e la sua comunità, oltre che con un’accezione di “bene culturale” ancora prettamente nazionale. Non vi sono, infatti, univoche definizioni nemmeno a livello europeo [82] e, comunque, il “bene culturale” fiscalmente rilevante è, fisiologicamente, ancor più contingente e relativo del bene culturale tout-court, dipendendo, oltre che dalla tradizione storico-artistica del singolo Stato, dalle risorse disponibili e, di conseguenza, anche dal rapporto, talvolta biecamente quantitativo, tra queste ultime e ciò che può essere considerato cultura o bene culturale. La tensione panculturale – fiscalmente inaccettabile – è, o, quantomeno dovrebbe essere, inevitabilmente e direttamente proporzionale alle risorse disponibili. Nella prospettiva domestica, una chiave di lettura potrebbe essere quella sopra delineata, che si dispiega tra gli itinerari di cui all’art. 53 Cost. (doverosità) e art. 9 Cost. (agevolazione “pura”): priorità a fronte di diseconomie o costi malati, piena discrezionalità legislativa negli altri casi. Distinzione che porta a distinguere il “bene culturale fiscalmente prioritario”, in quanto da tutelarsi per doveroso criterio [continua ..]
L’Art Bonus, collocato, anche dal punto di vista sistematico, come forza motrice di un “pacchetto” di disposizioni volte alla tutela del patrimonio culturale e al rilancio del turismo [88], ha dato uno slancio fondamentale per colmare il gap esistente tra la cronica necessità di risorse per sviluppare politiche culturali adeguate all’immenso patrimonio italiano, ed un apparato di misure finanziarie e fiscali funzionale allo scopo. Ha riportato, infatti, l’Italia al passo delle altre importanti esperienze europee ed internazionali, attraverso uno strumento che, sebbene migliorabile, si candida ad essere menzionato tra le best practice del settore, anche in virtù di una prassi applicativa esplicita nel dilatare il più possibile l’ambito applicativo dell’istituto anche oltre l’appartenenza pubblica formalmente intesa. Oltre alla conclamata efficacia, l’Art Bonus ha dimostrato la consapevolezza della centralità, in primo luogo, della “questione risorse”, senza la quale nessuna seria politica culturale può essere intrapresa; in secondo luogo, della più evoluta dimensione multilaterale del sistema dei beni culturali, emancipato dalla dicotomia Stato/privato per guardare anche a utenti e mecenati [89]. Tale apertura si è accompagnata ad un mutamento del linguaggio, abbandonando il tipico esoterismo di quello fiscale, per accogliere strategie comunicative moderne e consone alla “filosofia” dell’istituto, icasticamente riassunta nello slogan “siamo tutti mecenati”. Si è, per tale via, tentato di rimuovere una doppia sacralità, quella della cultura, e quella della fiscalità, entrambe avviluppate in una dimensione elitaria. La misura, volendo stilare un giudizio conclusivo, merita certamente non solo di essere salvaguardata in un complessivo scenario di marginalizzazione della fiscalità funzionale, ma di essere corroborata, superando i “nodi” da sciogliere, tratteggiati nella seconda parte del presente lavoro. Si potrà replicare che l’obiettivo legislativo non sia stato raggiunto con la stessa efficacia in tutto il Paese, e persistano taluni profili di criticità, e, ancora, che la campagna informativa non superi uno dei problemi di fondo del capillare patrimonio italiano, ossia portare i [continua ..]