Il lavoro intende analizzare i caratteri e le implicazioni del vizio di sottoscrizione degli atti impositivi. In particolare, esso mostra la sua non incidenza sulla “esistenza giuridica” dell’atto ed i possibili margini di assoggettamento al regime della “nullità” in senso proprio, specie in vista del prossimo passaggio verso la c.d. “firma digitale”.
The paper aims to analyze the consequences of defect in the signature of acts of assessment. In particular, it will be highlighted that this defect does not affect the “legal existence” of the act; rather, there is margin to affirm that the act is void, especially in view of the ongoing process towards the so-called “digital signature”.
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1. La sottoscrizione quale naturale requisito di “validità” dell’atto di accertamento - 2. L’incerta “regola di invalidità” cui sottoporre il “vizio di sottoscrizione” - 3. L’articolazione del sistema di invalidità degli atti impositivi - 4. “Inesistenza giuridica” dell’atto impositivo: premesse concettuali e metodologiche - 5. Segue: non incidenza del vizio di sottoscrizione sulla “esistenza giuridica” dell’atto impositivo - 6. La “nullità” (propriamente detta) degli atti impositivi: brevi osservazioni preliminari. La sua valenza prettamente “processuale” (“imprescrittibilità” dell’azione) - 7. Segue: i margini di ammissibilità di una azione di “nullità” nell’ordinamento tributario vigente - 8. Il regime di invalidità del vizio di sottoscrizione: la proiezione formale di una questione organizzativa? - 9. Vizio di sottoscrizione e sviluppo della c.d. “Amministrazione digitale”: quali prospettive? - NOTE
Che il difetto di sottoscrizione renda l’atto impositivo “viziato” appare un dato inequivocabile. Quanto meno nell’ambito della disciplina sull’accertamento delle imposte sui redditi (e dei tributi che ad essa rinviano), la legge sembra parlare chiaro, ravvisando in tale elemento uno dei requisiti (formali) di “validità” dell’atto [2], prescrivendone la presenza a pena di “nullità” (seppur da intendersi nel senso di “annullabilità”) [3]. Ma anche là dove un simile obbligo non è espressamente previsto (ad esempio: per l’IVA [4], per l’imposta di registro [5], per le imposte di successione e donazione [6]), la necessità di una “sottoscrizione” (da parte quanto meno del titolare dell’ufficio) discende dalle modalità di esternazione dell’atto impositivo e dai principi generali alla base dell’agire delle pubbliche amministrazioni. Quanto al primo aspetto, l’atto di accertamento assume le fattezze di un documento (giuridico) scritto. La pretesa fiscale (atto giuridico c.d. “contenuto”) è cioè veicolato all’esterno – e assume rilievo sociale e giuridico – per il tramite di una “cosa rappresentativa di un messaggio” (res signata) la cui struttura formale (c.d. “contenente”) deve quindi “organizzarsi” in modo da rispecchiare adeguatamente la fattispecie normativa che è chiamato a concretizzare [7]. In tale ottica, l’identificazione del suo “autore”, di colui cui attribuire la “paternità giuridica” del documento, appare esigenza connaturata alla sua sostanza di atto giuridico, non potendo esso – in quanto tale – innovare la realtà giuridica senza un riferimento soggettivo, attivo e passivo [8]. Esigenza tradizionalmente soddisfatta – appunto – attraverso la sottoscrizione [9]. Quanto al secondo aspetto, nell’atto di accertamento – in quanto espressione scritta di un atto amministrativo [10] – la necessità della sottoscrizione assume una valenza ulteriore e specifica. Come noto, ogni figurasoggettiva pubblica, in quanto astrazione normativa, per agire non può che avvalersi [continua ..]
Se indubbio è il fatto che la sottoscrizione sia un elemento necessario per la “validità” dell’atto di accertamento, decisamente più incerte sono le conseguenze derivanti dalla sua mancanza, ossia in difetto di indicazione dell’autore dell’atto [13]. Ovviamente, sotto questo profilo, occorre precisare i rapporti intercorrenti tra “validità” ed “invalidità” degli atti giuridici in genere, ed amministrativi e tributari in specie. Come oramai ampiamente chiarito in dottrina, i due concetti non costituiscono l’uno contraltare (e negazione) dell’altro. Mentre con il termine “validità” si è soliti identificare la summa degli elementi costitutivi della fattispecie normativa cui è riferibile l’atto giuridico (il suo “modello” o “paradigma” astratto), l’invalidità esprime il trattamento che l’ordinamento riserva ad un atto ove non sia concretamente conforme a tale modello, ove cioè sia “viziato” [14]. Con il termine “invalidità” si vuole cioè esprimere un sistema di norme (più o meno articolato) volto a dare una “regola” alle “patologie” dell’agire giuridico, a definirne cioè le tecniche di “riassorbimento” all’interno del sistema giuridico e sociale [15], fissando termini e modalità attraverso cui agire per la c.d. “elisione degli effetti” (giuridici e/o materiali) degli atti viziati, al fine di impedire loro di innovare l’ordinamento giuridico e/o di modificare (attraverso l’eventuale esecuzione) la realtà materiale cui sono rivolti [16]. Non vi è quindi necessaria corrispondenza (rectius: specularità) tra tali fenomeni e sistemi normativi, circostanza questa che trova conferma sotto due profili: da un lato, nell’emersione – in ogni sistema giuridico contemporaneo – di c.d. “irregolarità”, di “vizi” dell’atto giuridico cui l’ordinamento, per varie ragioni, preferisce non collegare alcuna forma di “invalidità” (i.e. eliderne l’efficacia), ritenendo preferibili altre conseguenze giuridiche (sanzioni disciplinari, indennità, rimessione in termini, ecc.) [17]; [continua ..]
In primo luogo, una visione “monolitica” dell’invalidità nel settore tributario, pur maggiormente credibile ad un primo sguardo [25], non sembra del tutto inattaccabile. Vero è che in tal senso appare esplicitamente orientata la giurisprudenza [26]. Ciò tuttavia non impedisce di considerare ancora aperta la questione circa l’ammissibilità di regimi di invalidità ulteriori rispetto alla tradizionale (e “generale”) annullabilità degli atti impositivi. Da una parte, la peculiarità delle questioni affrontate nelle sopraindicate pronunce ed il modo in cui sono state risolte inducono infatti a considerare le affermazioni ivi contenute pur sempre serventi alla soluzione del caso specifico [27]. Dall’altra, e più in generale, non può non indurre ad una riflessione il fatto che, in pressoché tutti i settori dell’esperienza giuridica, emerga una chiara tendenza alla diversificazione dei regimi di invalidità. Si pensi, a quanto avvenuto a proposito degli atti amministrativi con l’introduzione degli artt. 21 septies e 21 octies, L. n. 241/1990 [28]; al regime di invalidità dei negozi giuridici e dei contratti, non più circoscritto al tradizionale binomio “nullità/annullabilità”, ma articolato in nuove e variegate forme di “nullità” (anche “ibride”: ad esempio, le c.d. nullità c.d. “di protezione”) [29]; alle diverse declinazioni dell’invalidità del matrimonio civile [30]; alle invalidità del contratto di società, delle delibere assembleari [31], degli atti di fusione [32]; alle variegate “patologie” degli atti processuali e delle sentenze nel settore processuale civile [33] e penale [34], fino a comprendere le multiformi patologie e regimi degli atti legislativi [35], degli atti normativi dell’UE [36], dei trattati internazionali [37]-[38]. Tutto ciò è sintomatico di come, da tempo ed ovunque, sia stata sconfessata l’idea di una eguale rilevanza (e quindi eguale disciplina) dei vizi degli atti giuridici; della necessità – emergente in ogni settore dell’esperienza giuridica – di ri-articolare in [continua ..]
Ciò chiarito, prima di accertare se il vizio di sottoscrizione – quale impossibilità di individuare, in modo oggettivo ed univoco, dall’atto (documento) il suo autore – possa soggiacere ad un regime di invalidità diverso dalla normale “annullabilità” degli atti impositivi, va preliminarmente verificato se esso non possa integrare addirittura un caso di atto (pur esistente nella sua documentalità, ma) “inesistente giuridicamente” (considerato il legame tra sottoscrizione e modulo di “imputazione organica” all’amministrazione) [48]. A tal fine, occorre innanzitutto sgombrare il campo da una ambiguità lessicale. Il termine “inesistenza” è infatti utilizzato da giudici e dottrina in due sensi profondamente diversi: a volte è impiegato per indicare (propriamente) una situazione appartenente alla teoria generale del diritto, ossia l’essere un atto privo di rilevanza giuridica; più spesso per descrivere (ma in modo improprio) la particolare “patologia” di un atto pur giuridicamente esistente, cui tuttavia si intende negare qualsivoglia margine di sanatoria [49]. In molti contesti il concetto di “inesistenza” ha costituito cioè l’escamotage lessicale per rimediare alla tassatività e/o alla rigidità delle cause legislative di invalidità dell’atto; tassatività e rigidità che avrebbero impedito a taluni “vizi” (ritenuti particolarmente gravi) di sfuggire a qualsivoglia “sanzione” solo perché non testualmente previsti [50], ovvero che avrebbero consentito ad essi di ricadere entro un regime considerato insufficiente (i.e. irragionevole per difetto) perché esposto a convalida o sanatoria. Casi del genere emergono in ogni settore dell’esperienza giuridica: per limitarsi a qualche esempio, si pensi alle c.d. sentenze inesistenti, conosciute sia nel processo civile che penale; ovvero, nel diritto societario, alla c.d. inesistenza delle delibere assembleari e degli atti di fusione. In tutti questi casi, al di là della terminologia, siamo però dinanzi ad atti che, sul piano della teoria generale, sono certamente da considerare giuridicamente esistenti, tanto che, come esattamente osservato in dottrina, [continua ..]
Innanzitutto, come osservato, l’agire giuridico delle amministrazioni pubbliche si fonda sul c.d. modello di “imputazione organica”. Questo (ideale) meccanismo di imputazione giuridica si proietta sul versante formale mediante la possibilità di qualificare (altrettanto idealmente) ogni atto amministrativo, qui inteso come documento, sulla base di due differenti livelli di “appartenenza”: (a) la sua appartenenza (o riferibilità) all’ente pubblico(per es. Agenzia fiscale, Ministero, Ente territoriale, ecc.) e (b) la sua appartenenza (o riferibilità) ad una persona fisica, cui attribuirne la paternità giuridica (e che dovrebbe essere il titolare dell’ufficio o delegato). Ebbene, tale distinzione consente di mettere in luce come la riferibilità – in concreto – di un atto ad una amministrazione (ed all’Amministrazione Finanziaria) costituisca aspetto indipendente e prioritario rispetto alla questione circa la sua “paternità”. Indipendente, perché è certamente possibile, a seguito di una valutazione fattuale, riconoscere la provenienza di un atto da una Pubblica Amministrazione, ma non da una persona che possa considerarsi (oggettivamente ed univocamente) suo autore [65]. Si noti come ad un simile risultato può contribuire infatti non solo il testo stesso dell’atto (ad esempio, perché la provenienza da un ente pubblico è chiaramente indicata nella sua inscriptio e/o per effetto di altri inequivocabili dati testuali) [66], ma anche il contesto (su tutti, il procedimento di notificazione può essere ulteriore indice della matrice pubblicistica dell’atto) [67]. Prioritario, perché ove non fosse possibile “a monte” riferire un atto all’amministrazione nessuna altra indagine avrebbe senso, atteso che ci troveremmo dinanzi ad un caso paradigmatico di “inesistenza” – si noti: ancor prima che giuridica – materiale di un atto (documento) amministrativo in quanto amministrativo [68]. Ed è questo – e non la presenza/assenza di sottoscrizione – ad incidere sulla “esistenza giuridica” dell’atto impositivo, sia in genere che nella prospettiva analitica qui adottata. Analogamente, il difetto [continua ..]
Dinanzi al vizio (formale) di sottoscrizione, come accennato, i regimi di invalidità prospettabili sono due: la “annullabilità” e la “nullità” dell’atto [76]. Quest’ultimo sembra anzi, ad un primo sguardo ed intuitivamente, imporsi in forza della (apparente) incidenza di tale patologia sul processo di imputazione dell’atto all’amministrazione. L’impossibilità (già sul piano formale) di identificare il soggetto (persona fisica) che agisce per conto di quest’ultima sembra infatti recidere quel legame tra di esso (titolare dell’organo), l’atto amministrativo e l’ente pubblico, necessario affinché il “rapporto organico” possa compiutamente realizzarsi [77]. L’atto, pur formalmente riferibile all’amministrazione e quindi “esistente”, mostrerebbe cioè – ex se e documentalmente – la sua non imputabilità all’amministrazione, rivelandosi quindi incapace – ab origine – di produrre qualsivoglia effetto giuridico. Questa osservazione – certamente verosimile e tutt’altro che priva di una sua logica – va tuttavia accuratamente soppesata. Anche ammettendone l’esattezza (per l’appunto, sulla scorta dei principi generali dell’agire amministrativo), non è detto che nel settore tributario comporti un qualche reale risvolto pratico, mutando davvero i termini e le possibilità di tutela da parte del contribuente. Il problema è infatti innanzitutto capire: (a) se e fino a che punto possa ammettersi all’interno del sistema tributario, per come oggi disciplinato, una “azione di nullità” propriamente detta ed in che senso vada declinata; (b) quando concretamente una “patologia” possa considerarsi “meritevole” di un simile diverso trattamento e se il vizio di sottoscrizione ne integri una ipotesi. Quanto alla prima questione, tradizionalmente, nel diritto civile (settore nel quale si è soliti collocare il modello dogmatico di “nullità” ed “annullabilità”) [78], la contrapposizione tra “annullabilità” e “nullità” si manifesta sotto tre diversi aspetti: (i) sul versante sostanziale, tra [continua ..]
Ebbene, un simile interrogativo sembra doversi risolvere – sì – de iure condito, ma – a sommesso avviso di chi scrive – in una prospettiva sistematica. Non sembra cioè risolutivo il riferimento (isolato) all’art. 21, D.Lgs. n. 546/1992 al fine di escludere tale azione, come invece sembra ritenere la Cassazione [87]. Una simile argomentazione appare infatti tanto immediata quanto fragile sul piano argomentativo, e ampiamente superabile attraverso altre strade. Innanzitutto, come dimostrato dall’esperienza di altri settori [88], anche di tale disposizione potrebbe tentarsi una lettura teleologicamente orientata, verificando – per così dire – fin dove le ragioni della “definitività” dell’atto non impugnato (impresse nel termine decadenziale di impugnazione) cessano di essere “ragionevoli”, rendendo giustificabile una tutela senza limiti temporali della “legalità” del prelievo. In fondo, se accettiamo l’idea che ogni regime di invalidità esprime un “equilibrio” tra principi di legalità e di certezza-stabilità dei rapporti giuridici, e che il sancire a certe condizioni la “definitività” dell’atto altro non è che la “traduzione” in chiave processuale di una scelta normativa che mostra di dar priorità assiologica a queste ultime esigenze (certezza-stabilità); ebbene, allora non può escludersi che, in alcune circostanze concrete ed eccezionali, la soluzione di compromesso prefigurata in via generale ed astratta dall’ordinamento (nei settori amministrativo e tributario, la “annullabilità” dell’atto) possa rivelarsi sproporzionata ed irragionevole e non trovare spazio; che possa cioè tentarsi una interpretazione “restrittiva” dell’art. 21, D.Lgs. n. 546/1992 che ne escluda l’operatività ove – si badi: pur sempre solo concretamente, nel singolo caso all’attenzione del giudice – l’interesse sostanziale sotteso alla norma violata, manifestatosi nel “vizio”, possa ragionevolmente considerarsi prevalente. Pur non essendo questa la sede idonea per una adeguata argomentazione in merito [89], si osservi [continua ..]
Quanto sin qui osservato consente di affermare come il sistema tributario sia in verità già astrattamente pronto ad accogliere al suo interno una azione di “nullità” propriamente detta. L’apparente vincolo posto dall’art. 21, D.Lgs. n. 546/1992 sembra potersi superare (se non facendo ricorso ad una interpretazione “riduttiva” della norma) quanto meno legittimando il contribuente a chiedere il rimborso delle imposte versate sulla base dell’atto impositivo “nullo” in senso stretto (ovviamente, ove non più ordinariamente impugnabile). Il problema sta nello stabilire quando una simile e più incisiva forma di tutela possa concretamente ammettersi; se vi sono – e quali sono – cioè “patologie” che possono ciò giustificare razionalmente, alla luce dei principi informatori del sistema. Ovviamente, non è questa la sede per compiere una simile analisi [94]. La questione che – molto più limitatamente – si vuole qui affrontare è quella relativa al vizio di sottoscrizione, se cioè proprio esso possa integrare una ipotesi del genere. Invero, il problema – che in linea di principio dovrebbe risolversi attraverso una verifica circa la perdurante “ragionevolezza” (in relazione al caso concreto) delle “ragioni” sottese alla “definitività” dell’atto [95] – assume qui una sua specificità, per il legame tra l’elemento-sottoscrizione e l’agire “per organi” delle amministrazioni pubbliche, di cui si è detto. Ebbene, a tal proposito, occorre tenere a mente come il meccanismo di c.d. “immedesimazione organica” rappresenti comunque un meccanismo ideale, non esistente “in natura”; un modo (si passi l’espressione che qui da intendere “kantianamente”) aprioristico di leggere mentalmente il rapporto tra l’ente pubblico e le persone che in esso operano, escogitato al fine di rimediare alla presunta “incapacità di agire” dello Stato in quanto persona giuridica (apprezzamento, quest’ultimo compiuto al fine politico di sancire il carattere unitario dello Stato) [96]. Nulla di più. Questa idealità del rapporto [continua ..]
Ciò detto, alcune brevi osservazioni si impongono in chiusura. È ben possibile che l’intera analisi sin qui svolta possa essere percepita, sul piano pratico, come essenzialmente inutile. Che in un atto impositivo possa mancare del tutto una sottoscrizione appare circostanza rara nella pratica, così come – anche quando ciò dovesse accadere – sembra più probabile un’impugnazione nei consueti termini decadenziali. Ciononostante, le questioni attinenti al vizio di sottoscrizione fin qui analizzate in un futuro non molto prossimo potrebbero assumere connotati del tutto nuovi, con riflessi anche in ordine al trattamento delle relative “patologie”. Grazie ad una serie di interventi legislativi, il processo di c.d. digitalizzazione della Pubblica Amministrazione sta compiendo infatti decisi passi in avanti [105]. Da tale evoluzione non è rimasta immune l’Amministrazione Finanziaria, già coinvolta in esso sotto diversi ed eterogenei profili [106]. In particolare, è oggi prevista la possibilità di notifica degli atti impositivi via PEC, in base alla regola generale di cui dall’art. 6, comma 1 quater, CAD e secondo la disciplina “speciale” di cui all’art. 60, comma 7, D.P.R. n. 600/1973 [107]. Questa novità potrebbe portare la firma – nella sua veste “digitale” – ad assumere un nuovo ruolo nell’economia dell’atto (documento) impositivo. Oltre a riacquistare una propria funzione probatoria(relativamente identificativa della persona sottoscrivente) [108], essa potrebbe assumere altresì una funzione per così dire “ascrittiva”, sul piano sostanziale, dell’atto all’amministrazione. Sia l’art. 28, comma 3, CAD, che l’art. 19, D.P.C.M. 22 febbraio 2012 [109], in tema di informazioni contenute nel certificato di firma elettronica avanzata (di cui la firma digitale è species), prevedono infatti solo meta-dati “minimi” da associare al certificato, dunque integrabili con altre informazioni rilevanti. Talché, ove il certificato di firma digitale dovesse essere un domani arricchito di (ulteriori) meta-dati attinenti al “legame” del sottoscrittore con l’ufficio (rendendo così la firma identificativa non solo di chi sottoscrive, ma anche della veste [continua ..]