Il raddoppio dei termini è un meccanismo che agevola l’Amministrazione Finanziaria nella propria attività accertatrice ed è stato introdotto nel nostro ordinamento nel 2006 in relazione a fattispecie che, oltre a violare norme tributarie, integrano verosimilmente una condotta penalmente rilevante. Le numerose incertezze applicative e i frequenti abusi hanno sin da subito messo in discussione tale disciplina introdotta dal c.d. Decreto Bersani-Visco, la quale, dopo un salvataggio da parte della Corte costituzionale, è stata sostanzialmente abrogata dal legislatore nel 2015. Lo stesso meccanismo del raddoppio è stato esteso nel 2009 alle violazioni della disciplina sul c.d. monitoraggio fiscale, collegandolo ad una presunzione di evasione degli attivi esteri non dichiarati in Quadro RW. Nel presente lavoro vengono, pertanto, ricostruiti i problemi applicativi di questa tormentata disciplina, la quale presenta dei profili di evidente contrasto con il diritto europeo c.d. primario. Prendendo le mosse da una decisione resa dalla Corte di Giustizia UE il 15 febbraio 2017, quest’ultima ha stabilito che la disciplina di uno Stato membro che preveda maggiori termini di accertamento per capitali detenuti in Stati terzi costituisce una restrizione incompatibile con la libera circolazione del capitale ex art. 63 TFUE, la quale può essere considerata giustificata solo nell’ipotesi in cui fosse già esistente al 31 dicembre 1993. A tale significativo colpo alla “tenuta” del raddoppio dei termini di accertamento per attività detenute all’estero – il quale inevitabilmente si ripercuote sulla disciplina italiana dell’art. 12, comma 2 bis, D.L. n. 78/2009, in quanto perfettamente sovrapponibile a quella olandese oggetto di censura europea – si aggiunge la recente presa di posizione della Suprema Corte emergente nell’ord. 2 febbraio 2018, n. 2662. In tale statuizione viene finalmente avallata la condivisibile tesi secondo cui la presunzione di evasione di cui al comma 2 avrebbe natura sostanziale, perché produce indubbi “effetti negativi” a carico del destinatario obiettivamente imprevedibili al momento della relativa introduzione e, pertanto, irretroattiva (con un dictum la cui portata si estende anche al connesso meccanismo del raddoppio).
The doubling of terms is a mechanism that facilitates the tax authorities in their assessment activity and it has been introduced into the Italian legal system in 2006 for cases in which, in addition to violating tax rules, are likely to integrate criminal proceedings. The various uncertainties and frequent abuses have immediately put in crisis this discipline introduced by the so-called Bersani-Visco Decree, which, after a “rescue” by the Italian Constitutional Court, was substantially abolished by the lawmaker in 2015. The same mechanism of doubling of terms was introduced in 2009 for infringements of the so-called tax monitoring discipline and linked to a presumption of evasion of foreign assets not declared in the RW Section of the annual tax return.
In this paper, therefore, the Author examines the problems of application of this tormented discipline, which presents evident points of incompatibility with the so-called primary Union’s law. Starting the analysis from a decision rendered by the Court of Justice of the EU on 15 February 2017, the latter has ruled that a national discipline that extends the recovery period in case of assets held in third countries (i.e. not member of the European Union) constitutes a restriction incompatible with the free movement of capital laid down in Art. 63 TFEU, which may be considered justifiable only if it was already existing on 31 December 1993. In addition to such significant big hit to the “endurance” of the mechanism of doubling of terms of tax assessment for undeclared offshore activities – which inevitably has implications on the Italian discipline of Art. 12, para. 2 bis, Law Decree no. 78/2009, since it is perfectly comparable with the Dutch one examined by the Court of Justice of the EU – the scenario is enriched by the developments linked to order no. 2662 of 2 February 2018 of the Italian Supreme Court. With such decision, the case law finally endorses the thesis that the presumption of evasion provided by para. 2 has a substantive nature, since it produces undoubted “negative effects” on the taxpayer objectively unforeseeable at the time of its introduction and, therefore, it cannot be applied retrospectively (with a dictum whose scope also extends to the strictly connected doubling of term mechanism).
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1. Premessa - 2. La disciplina sul c.d. monitoraggio fiscale e il progressivo inasprimento delle sanzioni in caso di violazione - 3. L’adozione del raddoppio dei termini anche per le violazioni dichiarative da Quadro RW - 4. La libera circolazione del capitale e dei pagamenti e la sua applicabilità anche nei confronti degli Stati non facenti parte dell’UE - 5. Il contrasto delle normative nazionali sul raddoppio dei termini di accertamento con la libera circolazione del capitale e dei pagamenti secondo la Corte di Giustizia UE - 6. Il contrasto giurisprudenziale circa l’efficacia nel tempo dei commi 2 e 2 bis, D.L. 1° luglio 2009, n. 78 - 6.2. L’orientamento secondo cui tali norme avrebbero natura sostanziale - 7. L’adesione della Suprema Corte alla c.d. tesi “sostanzialistica” e la conseguente irretroattività della presunzione di evasione … ma anche del raddoppio dei termini di cui al comma 2 bis - 8. Riflessioni conclusive e prospettive future - NOTE
Il meccanismo del raddoppio dei termini è particolarmente temuto poiché, al verificarsi dei presupposti previsti dalla legge, permette all’Amministrazione Finanziaria di poter effettuare un controllo sostanziale della fedeltà fiscale del contribuente beneficiando di una notevole estensione temporale per poter formalizzare la pretesa impositiva. Nell’ordinamento italiano, l’introduzione di tale istituto derogatorio al normale termine di accertamento a disposizione del fisco è avvenuta ad opera dell’art. 37, commi 24 e 25, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. Decreto Bersani-Visco) [1], il quale ha previsto che sia per le imposte sul reddito sia per l’IVA, in presenza di un reato fiscale comportante “obbligo di denuncia” ex art. 331 c.p.p., i termini di accertamento dovessero essere raddoppiati. Sebbene la ratio della norma risultasse sulla carta tutto sommato chiara – seppur poco ragionevole [2] – l’applicazione concreta della stessa appariva subito foriera di problematiche e si prestava, non di rado, ad utilizzazioni abusive da parte dei verificatori fatte al solo scopo di guadagnare tempo prezioso [3]. Nel 2011 la Corte costituzionale interveniva per fare chiarezza su alcuni degli aspetti più dibattuti, statuendo che i termini raddoppiati non rappresentano una “proroga” di quelli ordinari e che il diritto di difesa del contribuente non risulta minimamente compromesso, poiché «il sistema processuale tributario consente (…) il controllo giudiziario della legittimità di tale apprezzamento» (c.d. prognosi postuma) [4]. Siffatta posizione, avallata in più occasioni dalla Suprema Corte [5], ha però messo in evidenza l’estrema opinabilità dell’istituto [6] tanto da indurre il legislatore a modificarlo per ben due volte in un anno [7]. La L. 28 dicembre 2015, n. 208, elimina, infatti, la distinzione tra termine ordinario e raddoppiato, prevedendo che, per i periodi d’imposta dal 2016 in poi, la decadenza dalla potestà accertatrice si verifica entro il 5° (in caso di dichiarazione infedele) o entro il 7° anno (in caso di omessa dichiarazione o nullità) successivo a quello di presentazione della dichiarazione [8]. Orbene, per poter comprendere l’impatto [continua ..]
Attraverso il D.L. 28 giugno 1990, n. 167, il legislatore italiano ha inteso introdurre una serie di obblighi dichiarativi in capo a taluni soggetti residenti (i.e. intermediari finanziari e bancari) relativi a movimentazioni e trasferimenti da e verso l’estero (art. 1), nonché in capo ad altri (i.e. persone fisiche, enti non commerciali, società semplici ed equiparate ex art. 5 TUIR) relativi alla detenzione o al trasferimento (da e verso) l’estero di investimenti ed altre attività estere di natura finanziaria (art. 4). La necessità normativa di introdurre tali obblighi dichiarativi, ed il correlato rigore sanzionatorio nei confronti dei trasgressori, trova la propria ratio nella tendenziale incapacità delle autorità fiscali – non solo italiane, trattandosi di un fenomeno globale – di intercettare efficacemente la consistente fetta di redditi di fonte estera riferibile ai propri residenti. Tali manifestazioni di capacità contributiva, infatti, possono emergere agli occhi del fisco, il quale non può esercitare unilateralmente i propri poteri investigativi (ma anche di accertamento “in senso stretto” e di riscossione) all’estero – in una parola, il c.d. potere tributario-amministrativo – senza incorrere in un illecito internazionale [9], essenzialmente in due modi: a) attraverso l’assistenza amministrativa fornita dalle omologhe autorità fiscali di altri Stati, le quali – sollecitate da una richiesta specifica, in modo spontaneo o in base ad un precedente accordo-quadro che preveda un interscambio automatico [10] – permettono di ottenere informazioni utili a verificare se il contribuente ha correttamente adempiuto alle proprie obbligazioni tributarie; b) attraverso una disclosure di informazioni effettuata dal contribuente stesso, al quale la normativa interna impone precisi obblighi dichiarativi. Quest’ultima modalità di ottenimento delle informazioni circa la ricchezza d’oltre confine rappresenta, per l’appunto, il leitmotiv della normativa sul c.d. monitoraggio fiscale, la quale non ebbe particolare successo al momento della sua approvazione (tant’è che gli stessi operatori non sapevano bene come applicarla in concreto per le scarse indicazioni amministrative), ma ha [continua ..]
A distanza di soli tre anni dalla sua prima comparsa nell’ordinamento tributario, il meccanismo del raddoppio dei termini veniva introdotto anche in relazione agli obblighi derivanti dalle norme sul c.d. monitoraggio fiscale delle attività detenute all’estero da contribuenti residenti in Italia. All’indomani del “Big Bang” del G20 tenutosi a Londra il 2 aprile 2009, ove le economie mondiali hanno dichiarato letteralmente guerra ai paradisi fiscali per la loro politica tributaria “opaca” connotata dal rigido segreto bancario e dall’assenza di scambio di informazioni, il Governo varava il D.L. 1° luglio 2009, n. 78 (c.d. Tremonti-ter) [20], il cui art. 12, comma 2, prevede che le attività localizzate in Paesi black list sottostanno alla presunzione (relativa) di evasione e che le sanzioni irrogabili ex art. 1, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, sono raddoppiate (c.d. sanzione “sostanziale”) [21]. Sarà però con l’art. 1, comma 3, D.L. 30 dicembre 2009, n. 194 (c.d. Decreto milleproroghe), convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 2010, n. 25, che l’accertamento basato sulla presunzione di evasione si arricchisce del meccanismo del raddoppio dei termini se gli assets esteri non dichiarati sono detenuti in un Paese black list (comma 2 bis). Quindi, lo Scudo-ter nel 2009, all’epoca sbandierato come ultima spiaggia per far emergere le attività estere non dichiarate, veniva accompagnato da alcuni “convincenti” meccanismi introdotti contestualmente o attraverso interventi normativi immediatamente successivi, che risultano tutt’oggi operativi, e cioè: a) art. 5, comma 2, D.L. 28 giugno 1990, n. 167: progressiva elevazione della c.d.sanzione “formale”per mancata indicazione della detenzione nel Quadro RW, come già illustrato poc’anzi soprattutto relativamente alle modifiche intervenute nel 2009 e nel 2013; b) art. 6, D.L. 28 giugno 1990, n. 167: presunzione (relativa) di fruttuosità degli attivi esteri «al tasso ufficiale di riferimento vigente in Italia nel relativo periodo d’imposta»; c) art. 12, comma 2, D.L. 1° luglio 2009, n. 78: introduzione dii) una presunzione (relativa) di evasione applicabile alle attività detenute in Paesiblack [continua ..]
Sebbene la disciplina sul raddoppio dei termini da Quadro RW ex art. 12, comma 2 bis, D.L. 1° luglio 2009, n. 78, sia oggetto di un quasi decennale contrasto giurisprudenziale domestico circa la sua portata retroattiva o meno, come vedremo meglio nel prosieguo, occorre prendere atto che la sentenza della Corte di Giustizia UE in commento rende tout court illegittima la medesima per incompatibilità con la libera circolazione del capitale. Com’è noto, il diritto europeo c.d. primario vieta espressamente tutte le «restrizioni ai movimenti di capitali» e le «restrizioni sui pagamenti», sia che avvengano tra Stati membri sia – ed è questa la peculiarità di tale libertà fondamentale – tra Stati membri e paesi terzi (art. 63 TFUE, già art. 56 TrCE). Sin dalla stesura del Trattato di Roma del 1957, gli Stati membri avevano ben compreso che la creazione del mercato unico non sarebbe stata possibile con la sola libera circolazione del lavoro e delle attività imprenditoriali, ma questa doveva estendersi inevitabilmente anche all’altro fattore produttivo: il capitale. Cosicché, al citato art. 56 TrCE (oggi art. 63 TFUE) la Corte di Giustizia UE riconosceva un “effetto diretto” sin dalla liberalizzazione del mercato di capitale ad opera della Direttiva 88/361/CEE. Nel caso Sanz de Lera del 1995 [24], veniva chiarito che tale disciplina «enuncia un divieto chiaro e incondizionato, che non necessita di provvedimenti di attuazione» (par. 41) ed è in grado di attribuire «ai privati diritti che essi possono far valere in giudizio» (par. 47). Tale approccio veniva ribadito nella giurisprudenza successiva e, in particolare, nel caso Skatteverket del 2007 [25]. Ma ciò che maggiormente fa riflettere circa la centralità di questa libertà fondamentale è che, in numerosi casi tributari riguardanti redditi prodotti fuori dallo Stato membro di residenza, la Corte abbia deciso in favore del contribuente proprio facendo applicazione dell’art. 63 TFUE (già art. 56 TrCE) [26]. Orbene, il fatto che la libera circolazione del capitale dei pagamenti sia l’unica libertà fondamentale applicabile anche ai rapporti con Stati non facenti parte dell’UE, determina necessariamente specifici [continua ..]
Nella decisione in commento, all’attenzione dei giudici europei è stata sottoposta la legittimità dell’art. 16, commi 3-4, del Codice tributario olandese (Algemene Wet inzake Rijksbelastingen, AWR), il quale prevede che «il potere di emettere un avviso di rettifica fiscale decade con il decorso di cinque anni dal momento in cui è sorto il debito d’imposta. (…) Qualora sia stata prelevata un’imposta troppo bassa per un elemento imponibile mantenuto o generato all’estero, il potere di rettifica fiscale, in deroga a quanto stabilito al terzo paragrafo, prima frase, decade con il decorso di dodici anni dal momento in cui è sorto il debito d’imposta». Una norma, com’è facile intuire già in prima battuta, del tutto sovrapponibile con quella prevista in Italia all’art. 12, comma 2 bis, D.L. 1° luglio 2009, n. 78. Nel caso di specie, la norma era stata applicata dal Fisco olandese ad un contribuente che aveva, sin dal 2004, conti bancari non dichiarati in Svizzera e Lussemburgo. Il contribuente impugnava gli avvisi di accertamento ricevuti sostenendo, in particolare, che gli stessi si traducessero in una sostanziale restrizione al movimento dei capitali tra Stati membri (i.e. Olanda e Lussemburgo), nonché tra uno Stato membro (i.e. Olanda) e uno Stato terzo (i.e. Svizzera), vietata dall’art. 63 TFUE. La controversia giungeva fino alla Suprema Corte (Hoge Raad der Nederlanden), la quale rinviava alla Corte UE la questione se l’applicazione dell’art. 16, comma 4, AWR, al conto detenuto dal ricorrente presso una banca svizzera, fosse compresa nei termini «qualunque restrizione (…) per quanto concerne i movimenti di capitali provenienti da Paesi terzi o ad essi diretti, che implichino (…) la prestazione di servizi finanziari» ex art. 64, comma 1, TFUE. I giudici europei hanno, pertanto, statuito tre principi: a) la deroga alla restrizione di cui all’art. 64, comma 1, TFUE si applica a una normativa nazionale che impone una restrizione ai movimenti di capitali considerati in tale disposizione, come il termine di accertamento tributario prolungato, anche allorché detta restrizione può essere parimenti applicata in situazioni che non implicano investimenti diretti, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o [continua ..]
In aggiunta agli evidenti profili di illegittimità derivanti dal diritto dell’UE, la disciplina italiana sul raddoppio dei termini di accertamento per omessa compilazione del Quadro RW risulta da un decennio al centro di un acceso dibattito giurisprudenziale circa la portata retroattiva o meno, che parrebbe aver trovato una soluzione grazie ad una recente decisione della Suprema Corte. Il significativo giro di vite alle violazioni degli obblighi dichiarativi da Quadro RW ha implicato, come si è visto, anche l’introduzione del raddoppio di termini di accertamento in presenza di attività detenute in Paesi black list, contenuto nel comma 2 bis dell’art. 12, D.L. 1° luglio 2009, n. 78. Ebbene, sin dall’introduzione di tale meccanismo la prassi amministrativa si è orientata nel senso di attribuirgli natura meramente procedurale, facendone scaturire, di fatto, un’applicabilità retroattiva alle annualità antecedenti al 2009 anchedella connessa presunzione di evasione di cui al precedente comma 2 [34]. 6.1. L’orientamento secondo cui tali norme avrebbero natura procedurale Alcuni giudici di merito si sono convinti della bontà della tesi erariale, arrivando a considerare «illogica la tesi interpretativa che, a fronte di una disposizione espressa che raddoppia i termini dell’accertamento, limiti tale presunzione ai periodi che vanno dall’anno 2009 in poi, essendo manifesta che una tale interpretazione renderebbe del tutto inutile e, quindi, spuntata, l’azione volta all’emersione del fenomeno dei capitali esportati illegalmente all’estero e sottratti all’imposizione fiscale» [35]. Si rilevava, in particolare, che la previsione dell’art. 12, commi 2 e 2 bis, non potesse che interpretarsi «ad efficacia derogatoria e retroattiva per natura, struttura, funzione e definizione. La norma in questione, essendo finalizzata al recupero a tassazione di ingenti capitali già esportati in Paesi a fiscalità privilegiata o black list (…) non può che ritenersi procedimentale (né può diventare semi-sostanziale perché la superiore presunzione può, per principio generale, essere superata provandone il già avvenuto assoggettamento o l’esenzione) e non può che concernere gli anni [continua ..]
La tesi appena illustrata non appare fondata poiché la c.d. tesi “sostanzialistica” stride clamorosamente con il principio di irretroattività stabilito dall’art. 3 dello Statuto [39]. A tale riguardo, è ben noto che, dopo un’iniziale apertura della Suprema Corte che tendeva a considerare le disposizioni della L. 27 luglio 2000, n. 212 “superiori” rispetto alle altre norme di rango ordinario [40], la giurisprudenza di legittimità si è attestata su una posizione che le qualifica come meri “criteri-guida” (di pari rango alla legge ordinaria) per il giudice nell’interpretazione delle norme tributarie anche anteriori, non permettendo, quindi, di fungere da parametro di costituzionalità né tantomeno consentire la disapplicazione di un’altra norma tributaria asseritamente in contrasto [41]. Ma è altrettanto vero che, anche escludendo la portata gerarchicamente superiore alle norme dello Statuto, non può non sottolinearsi che il principio di irretroattività stabilito dall’art. 3, comma 1, possa essere superato solo in presenza di un’espressa deroga in tal senso. Questa conclusione è supportata dell’art. 1, comma 1, dello stesso Statuto, a mente del quale tutte le disposizioni della L. 27 luglio 2000, n. 212 (e, quindi, anche il principio di irretroattività ex art. 3), risultando attuative degli «articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono princìpi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali». In tal senso, la Cassazione ha in più occasioni ribadito che «in tema di efficacia nel tempo delle norme tributarie, in base alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3 (cosiddetto Statuto del contribuente), il quale ha codificato nella materia fiscale il principio generale di irretroattività delle leggi, stabilito dall’art. 11 disp. gen., va esclusa l’applicazione retroattiva delle medesime salvo che questa sia espressamente prevista» [42]. Se da un lato, infatti, il testo dell’art. 12, comma 2, si limita a fare un generico riferimento all’applicabilità di tale disposizione «in deroga ad ogni disposizione di legge», senza effettuare alcun espresso [continua ..]
La giustizia tributaria italiana è da tempo sotto accusa da parte della dottrina per via dei molteplici difetti strutturali che la connotano: oltre alle criticità, da più parti sollevate [44], dell’assenza di una magistratura tributaria specializzata che può portare cause, talvolta milionarie, ad essere decise da collegi scarsamente preparati sulle peculiarità della materia del contendere (con sentenze, si badi bene, che possono danneggiare tanto l’interesse erariale che i diritti del contribuente onesto), sempre più spesso viene percepito uno scollamento tra la giurisprudenza di merito e le statuizioni della Sezione tributaria della Corte di Cassazione. È evidente, infatti, che quest’ultima debba (rectius dovrebbe) individuare la strada giuridicamente più appropriata per orientare le Commissioni tributarie [45], ma, al contempo, le frequenti oscillazioni interne alla stessa giurisprudenza di legittimità indeboliscono notevolmente tale funzione di guida [46]. L’ordinanza n. 2662, depositata il 2 febbraio 2018 è, però, un esempio in cui la Suprema Corte ha individuato la soluzione più logica (e giusta) sulla vexata quaestio dell’applicazione temporale della disciplina sull’omessa o infedele compilazione del Quadro RW, la quale è da tempo auspicata in dottrina e avallata dall’orientamento prevalente della giurisprudenza di merito. La vicenda analizzata riguarda un accertamento relativo agli anni 2005, 2006 e 2005 (e correlati atti di contestazioni per sanzioni da Quadro RW) scaturito da elementi indiziari contenuti nella controversa c.d. lista Falciani [47], la cui valenza probatoria in materia tributaria è ormai stata del tutto sdoganata dalla giurisprudenza [48]. Dopo che il contribuente aveva vinto nei primi due gradi di giudizio, nei quali veniva confermata l’inapplicabilità della presunzione di evasione agli anni antecedenti al 2009, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione spendendo due motivi volti, da una parte, a rivendicare la natura procedurale di detta presunzione e la sua applicabilità retroattiva, e, dall’altra, a far dichiarare comunque irrogabile la c.d. sanzione “formale” per violazione degli obblighi di cui all’art. 4, comma 2, D.L. 28 giugno 1990, [continua ..]
L’intrinseca debolezza della disciplina sul raddoppio dei termini per omessa dichiarazione degli assets esteri è stata finalmente acclarata da due diversi punti di vista: da quello europeo, la decisione della Corte di Giustizia UE in commento non può e non deve passare inosservata agli occhi dei giudici tributari, poiché la normativa olandese oggetto di analisi è sostanzialmente analoga a quella italiana; da quello domestico, la giurisprudenza di legittimità ha sancito la irretroattività della relativa applicazione. Quanto alla recente ordinanza della Suprema Corte, deve prendersi atto che, al di là dell’indubbio impatto dirimente su un contrasto giurisprudenziale quasi decennale su una materia di grande attualità, questa deve essere salutata con favore anche per ragioni di ordine sistematico. Appare, infatti, particolarmente significativa la valorizzazione data dalla Cassazione al principio di retroattività in materia tributaria, il quale viene supportato dalla forte argomentazione della necessaria “prevedibilità” della legge, connotato in assenza del quale un contribuente non può essere sottoposto a tassazione né tantomeno risultare destinatario di un provvedimento sanzionatorio. Viene, quindi, dato risalto ad un principio di “civiltà fiscale” del sistema italiano, il quale è rinvenibile non solo nello Statuto dei diritti del contribuente, ma anche in fonti sovranazionali. La Cassazione, tuttavia, non lambisce minimamente il tema della incompatibilità tout court della normativa sul raddoppio dei termini per il Quadro RW ex comma 2 bis con la libertà fondamentale di circolazione del capitale nell’UE, così come interpretata dalla Corte di Giustizia UE nel 2017. Tale profilo, che probabilmente non è stato sollevato negli atti di parte, poteva (e, anzi, doveva) essere affrontato dalla Cassazione anche d’ufficio e, trattandosi di diritto europeo c.d. primario, sarebbe stato quantomeno opportuno un tentativo di applicazione della c.d. interpretazione conforme teorizzata nel caso Marleasing [62], al fine di poter scongiurare la futura configurabilità di una responsabilità per danni dell’Italia per violazione del diritto UE perpetrata da un organo giurisdizionale nazionale di ultima [continua ..]