L’autore, ponendosi in una prospettiva storico-giuridica, analizza le riforme fiscali che furono fatte durante il tardo impero romano da Diocleziano, il quale cercò in tal modo di affrontare la crisi del III secolo d.C. L’eccessivo livello di tassazione, caratterizzato da un netto sbilanciamento a sfavore delle classi meno agiate della popolazione, portò l’imperatore ad intervenire in modo organico, procedendo a dividere il territorio imperiale in “unità fiscali” per rendere equa la già esistente imposta fondiaria (iuga), ma soprattutto introducendo un’imposta personale parametrato sulle unità lavorative (capita). L’idea alla base del sistema è quella di rendere fiscalmente rilevante, da una parte, la testa (caput) di un lavoratore-colono, dall’altra la superficie di terra (iugum) che lo stesso colono è in grado di lavorare. L’analisi di tale riforma, come evidenziato nella successiva postilla al contributo, ebbe il merito di arginare la drammatica situazione istituzionale di tale epoca, ma mette in luce gli ammonimenti che il legislatore fiscale odierno tenere a bada nell’affrontare l’attuale crisi strutturando il sistema fiscale con interventi lungimiranti (e non meramente episodici).
The author, placing himself in a historical-juridical perspective, analyses the fiscal reforms that were made during the late Roman Empire by Diocletian, who sought in this way to face the crisis of the third century A.D. The excessive level of taxation, characterised by a clear imbalance against the less wealthy classes of the population, led the emperor to intervene organically, proceeding to divide the imperial territory into “fiscal units” to make the already existing land tax (iuga) fair, but above all by introducing a personal tax based on working units (capita). The idea behind the system is to make fiscally relevant, on the one hand, the head (caput) of a worker-colonist, and, on the other, the land surface (iugum) that the colonist himself is able to work. The analysis of this reform, as highlighted in the next postscript to this article, had the merit of curbing the dramatic institutional situation of that era, but it highlights the warnings that today’s tax legislator shall keep in mind in facing the current crisis by structuring the tax system with far-sighted (and not merely episodic) interventions.
Keywords: roman law, economic and financial crisis, tax reform, land tax, personal tax
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1. Scenario: tracollo delle istituzioni e crisi sociale - 2. Il tormento dei contribuenti: voci dalla periferia dell’Impero - 3. I capisaldi della riforma - 4. Brevi considerazioni conclusive - NOTE
«Ut nec vivere iam nec mori saltim gratis liceret»: non era lecito né vivere né morire gratuitamente. Con questo giudizio impietoso, Lucio Cecilio Firmino Lattanzio [1] condanna senza appello il censimento disposto da Galerio Massimino e con esso l’intero sistema fiscale dioclezianeo. Qualche decennio più tardi, un altro storico e apologeta cristiano, Orosio, con toni più pacati, esprime lo stesso concetto in modo persino più radicale: i barbari che invadono l’impero nel corso del V secolo, trovandosi a loro agio nelle nuove terre, abbandonano ben presto la spada a favore dell’aratro e trattano con bonomia i romani superstiti, considerandoli alleati e amici; questi ultimi, dal canto loro, sembrano spesso accettare di buon grado i nuovi arrivati. La ragione di tale sollievo è per l’appunto la liberazione dal giogo del fisco, la possibilità inaspettata di sottrarsi alla presa implacabile della tenaglia tributaria. Non è raro, infatti – precisa Orosio – trovare Romani «qui malint inter barbaros pauperem libertatem, quam inter Romanos tributariam sollicitudinem sustinere» [2]. Defezioni, ribellioni, tradimenti, fughe, atteggiamenti ambigui, si alternano e si intrecciano nel lento crepuscolo della pars Occidentis, moltiplicandosi da una parte all’altra dell’Impero. A innescare la rivolta, in molti casi, è proprio l’insofferenza verso la schiavitù tributaria, il desiderio insopprimibile di liberarsene. Come nel caso della ribellione dei Bagaudi [3], che esplode nella prima metà del V secolo, della quale ci parla il vescovo di Marsiglia, Salviano, con parole di fuoco. Nella sua ottica, i contadini della Gallia, ridotti alla fame, sono stati costretti a ribellarsi a causa della iniquità del sistema amministrativo romano e della disonestà dei suoi funzionari. L’immagine che ne deriva è quella di un meccanismo ormai impazzito e totalmente fuori controllo: a un prelievo fiscale giunto ormai a livelli intollerabili si aggiunge la voracità insaziabile dei rappresentanti dell’amministrazione che, abusando del proprio ruolo, commettono ingiustizie e arbitri di ogni genere, come bestie feroci che non rinunciano neppure a succhiare il sangue delle vittime. Da qui la scelta disperata dei ribelli di tagliare i ponti [continua ..]
Che impatto ha avuto questa riforma? Per coglierne la portata facciamo un salto qualche anno dopo la morte di Diocleziano, in pieno regno di Costantino, per raccogliere una testimonianza assai significativa offerta dal panegirico [28] VIII, composto con molta probabilità alla fine di marzo del 312. In quell’anno, Costantino si reca a Treviri per celebrarvi i Quinquennalia, ovvero il quinto anniversario della nomina ad augusto e del matrimonio con Fausta, la figlia di Massimiano. L’autore del panegirico, cittadino e senatore di Autun, retore e professore nelle prestigiose scuole Meniane, approfitta dell’occasione per comporre un testo elogiativo nel quale ringrazia l’imperatore per la visita compiuta l’anno precedente nella civitas Aeduorum [29]. Nel testo, spesso ellittico e piuttosto oscuro, Eumenio sottolinea con forza i meriti dei cittadini di Autun, il loro attaccamento all’Impero, le sofferenze patite a causa della loro fedeltà a Roma. La rivendicazione orgogliosa delle virtù della città fa da premessa al nucleo centrale del panegirico nel quale l’autore tesse l’elogio della liberalità degli imperatori, grazie ai quali Autun è stata risollevata dalle rovine causate dalla rebellio Baugadica. Sappiamo infatti che, in occasione del suo incontro con gli Edui, Costantino verifica di persona la condizione miserevole nella quale vive la popolazione. Dalla sommità di un colle, utilizzato come osservatorio, contempla la campagna desolata, la devastazione che opprime il paesaggio circostante; gli stessi sforzi fatti dagli abitanti per assicurare una accoglienza dignitosa a un ospite così illustre non fanno altro che aggravare la sensazione di miseria e di abbandono in cui versa la regione. Per tale motivo, quello stesso giorno Costantino comunica al senato le misure che ha intenzione di adottare in favore di quella città: si tratta in sostanza della decisione di condonare [30] agli abitanti parte delle imposte arretrate, di cancellare il debito fiscale che ostacola la ripresa dell’economia di quel territorio [31]. È decisivo, ai nostri fini, il passo nel quale Eumenio introduce il tema del beneficio tributario. «La città giaceva prostrata non tanto per la rovina delle mura quanto per la mancanza di forze, dopo che l’asprezza delle nuove imposte [continua ..]
Abbiamo visto sinora scenario e climax. È giunto il momento di scoprire le carte mettendo a nudo le nervature della riforma. Il punto di partenza della riforma è rappresentato dalla annona militare [37]. La storiografia ha evidenziato tale profilo sottolineando come il sistema della capitazione si tradurrebbe in una sorta di annona riformata. A questo riguardo si è parlato di una «fiscalisation» dell’annona [38], etichettando la riforma come il prodotto della mente di un «ufficiale di intendenza» [39] piuttosto che di un tecnico della fiscalità. Una critica probabilmente un po’ impietosa e non del tutto meritata sulla quale è opportuno sospendere il giudizio. Quale che sia la definizione più calzante per descrivere il sistema tributario messo in piedi a partire da Diocleziano, è indubbio che in un’epoca caratterizzata da una inflazione galoppante e da una incontrollabile volatilità monetaria la strada più sicura per placare l’inestinguibile appetito finanziario della macchina statale non poteva che essere quella di privilegiare la contribuzione in natura, facendo sì che le forniture annonarie [40] rappresentassero la parte fondamentale del gettito fiscale. Da questo punto di vista, del resto, Diocleziano non fa altro che prendere atto, razionalizzandola, di una tendenza già affermatasi nel corso del secolo che stava per chiudersi [41]: l’annona, nata come supplemento di imposte fondiarie regolari [42], di carattere eccezionale, era stata resa ordinaria, ancorché accessoria, dai Severi (fine del II secolo inizio del III), i quali la inseriscono ufficialmente nel sistema fiscale, finché, a partire dalla metà del III secolo, da imposta addizionale essa diventa imposta principale, a motivo della impraticabilità di una esazione in denaro per le ragioni appena ricordate [43]. Ma come si procedeva alla determinazione di questa imposta? La risposta è abbastanza semplice. Il calcolo del debito tributario avviene attraverso la divisione del territorio dell’Impero in unità fiscali (iuga), di uguale valore ma di diversa estensione, in ragione della zona geografica e del tipo di coltivazione adottato. Tale tributo fondiario consiste in una quota del prodotto lordo, pagabile in natura o nell’equivalente in denaro. Finito qui? No. [continua ..]
Il titolo che ho dato a questo articolo è “Crisi dell’ordine politico e riforma fiscale”. In qualsiasi ordinamento, l’esercizio di conciliare il primo lessema “crisi” con il secondo “tributario” risulterebbe improbo. Eppure, se la storia insegna qualcosa, è che questo stress-test si presenta regolarmente nelle fasi di transizione più delicate. La riforma di Diocleziano, con tutti i suoi limiti e ambiguità, è riuscita nell’impresa di rivitalizzare l’Impero romano permettendogli di sopravvivere per più di un secolo. Ma vi è di più. Secondo alcuni, tale riforma è stata persino alle origini del feudalismo, avendo delineato i presupposti del vincolo uomo-terra, che sarà al centro dell’orizzonte antropologico e sociale dell’Alto Medioevo. Se questo fosse vero, sarebbe ancora una volta dimostrato che la chiave fiscale apre la porta per la costruzione non solo di nuove istituzioni, ma addirittura per la rivoluzione delle strutture sociali. Ecco quindi che riproporre Diocleziano nel XXI secolo è lungi dall’essere un mero esercizio di erudizione antiquaria. No, niente affatto. E certo non per anacronistici tentativi di attualizzare una vicenda che deve essere letta solo ed esclusivamente nel suo contesto. Il punto è che i cittadini di Autun, i quali preferiscono gettarsi tra le braccia dei barbari piuttosto che soggiacere ai rigori di una riforma devastante, ci dicono qualcosa di importante. L’aristocrazia romana, immaginata dai quadri di Alma Tadema alla fine dell’Ottocento sicura di sé e spensierata, intuisce una verità che era sfuggita ai propri imperatori: la riforma fiscale non si limitava a produrre i suoi effetti sulla razionalizzazione delle istituzioni, in senso weberiano. Faceva qualcosa di più: sconvolgeva le basi delle classi sociali consolidatesi nel corso di secoli: una unintended consequence che si ripropone puntualmente in tutti gli orizzonti di spazio e di tempo. Non è forse vero che la liquidazione della borghesia come classe generale in Europa è passata per una intollerabile pressione fiscale? Ciò che resta delle classi medie sembra una zattera sopravvissuta a una tempesta dipinta da Turner. Ci troviamo allora confrontati con una constatazione che nella scienza giuridica raramente affiora alla coscienza con [continua ..]