L’articolo è incentrato sui profili IVA della nuova figura degli enti del Terzo settore disciplinata dal D.Lgs. n. 117/2017 (c.d. Codice del Terzo settore). Il legislatore italiano, tuttavia, ha introdotto una nozione di “ente non commerciale” particolarmente complessa che se, da un lato, ben si giustifica nell’ambito delle imposte sui redditi, dall’altro, è inconciliabile con i principi fondamentali dell’IVA. L’unica strada percorribile pare dunque quella di applicare direttamente la nozione di organismo a carattere sociale contenuta nella Direttiva e di utilizzare il principio di sussidiarietà orizzontale come canone interpretativo.
The article focuses on the VAT aspects of the new Third Sector Organisatins (TSOs) regulated by Legislative Decree n. 117/2017 (so-called Code of the Third sector). TheItalian legislator, however, has introduced a particularly complex notion of “non-commercial entity” that, on the one hand, is well justified in the field of income taxes, on the other, it is incompatible with the fundamental principles of VAT. The only practicable way therefore seems to be that of directly applying the notion of bodies devoted to social wellbeing contained in the Directive and using the principle of horizontal subsidiarity as interpretive canon.
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1. Introduzione - 2. Gli ETS come paradigma di riferimento dell’imprenditoria sociale “di mercato” - 3. La “categoria tributaria” di ETS non commerciale quale soggetto fuori dal mercato - 4. Segue: gli ETS non commerciali tra (apparente) mancanza di soggettività IVA ed esenzione - 5. Segue: il necessario superamento del concetto di attività commerciale - 6. Gli effetti discriminatori dell’eccessiva eterogeneità degli ETS - 7. Gli organismi a carattere sociale come categoria unificante gli ETS - 8. L’equivoco di fondo: la “migrazione” della figura di ETS non commerciale dal settore delle imposte dirette a quello delle esenzioni IVA - 9. Conclusioni - NOTE
La domanda, di fondo, alla quale si cercherà di dare risposta nel presente contributo è se, in base al diritto europeo ed in virtù della giurisprudenza della Corte di Giustizia, sia possibile/necessario individuare una figura unificante gli enti del Terzo settore (di seguito, ETS) alla quale poter “ricorrere”, soprattutto in via interpretativa, nel momento in cui la normativa domestica presenti profili di dubbia compatibilità con i principi costituzionali ed europei (v. infra, par. VI ss.). In ambito IVA, infatti, la eccessiva valorizzazione del profilo soggettivo degli ETS può creare evidenti trattamenti di carattere discriminatorio in quanto, come noto, sul “mercato delle attività di interesse generale” sono presenti soggetti (per di più, pubblici e privati) che, al di là della veste giuridica, operano sul medesimo terreno e che, sostanzialmente, hanno le stesse caratteristiche. In buona sostanza occorre evitare che, a parità di soggetti, tipologie di attività ed interessi tutelati dal “sistema” dell’IVA, trovino applicazione diversi regimi impositivi (imponibilità, esenzione ed esclusione). D’altro canto, è ormai pacifico che, nelle ipotesi in cui le disposizioni interne prestino il fianco a diverse interpretazioni, tra loro potenzialmente contrapposte, occorre prediligere quella conforme al diritto europeo, pena una diretta violazione dello stesso. È, altresì, ben noto che la Direttiva IVA lascia ampi margini di manovra ai singoli legislatori in merito alla “scelta” dei soggetti, diversi dagli enti di diritto pubblico, ai quali “attribuire” l’applicazione dei menzionati regimi IVA. È altrettanto vero, però, che nel momento in cui uno Stato membro opta per un determinato modello, (anche dal punto di vista dei soggetti ai quali devolvere vere e proprie funzioni pubbliche, in attuazione del principio della sussidiarietà orizzontale), piuttosto che per un altro, occorre, poi, che l’interpretazione e le scelte concrete siano coerenti con il modello prescelto. In tale complesso contesto di riferimento, il D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (c.d. Codice del Terzo settore) ha attuato una riforma strutturale della disciplina civilistica e tributaria degli ETS delineandone, dettagliatamente, le caratteristiche [continua ..]
È di palmare evidenza che la riforma del Terzo settore si è posta come obiettivo prioritario quello di sistematizzare figure eterogenee e complesse di soggetti operanti sul mercato delle attività di interesse generale, ciò nel tentativo di delineare una categoria di ETS trasversale. Dunque, dal punto di vista civilistico, al di là di talune critiche mosse dalla dottrina, il passo in avanti è estremamente significativo e la nozione di ETS pare ben identificata nei propri elementi caratterizzanti (i quali, ovviamente, mutano anche in ragione del tipo di attività esercitata e delle diverse esigenze “strutturali”) [8]. D’altro canto, la legge delega pareva assolutamente inequivocabile e l’art. 1 della stessa è privo di incertezze. Tale norma, al comma 1, dispone, che il Terzo settore è formato da «il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi» [9] . Tali disposizioni, scritte in modo limpido ed incisivo, potrebbero essere definite, utilizzando un gergo caro al diritto europeo, self executing, tanto da essere assunte, esse stesse, a parametro (e paradigma) definitorio della nozione di ETS: al legislatore delegato, infatti, sarebbe stato sufficiente trasporre, de plano, il contenuto delle delega, senza ulteriori specificazioni, per disciplinare una figura di “imprenditore non speculativo” del tutto adattabile alle diverse attività di interesse generale. In sintesi, trattasi, chiaramente, di tutti quegli enti che esercitano tipologie di attività aventi un contenuto spiccatamente sociale (oppure addirittura connesse a bisogni primari della persona e della collettività), tradizionalmente esercitate da enti pubblici, ma che, oggi, tendono ad essere devolute a soggetti privati [10] operanti, prevalentemente, sul mercato. In altri termini, le disposizioni in questione costituiscono una perfetta sintesi dello schema tipico di attuazione della [continua ..]
Nonostante che la legge delega lasciasse ampi spazi di manovra per introdurre e “modellare” una nozione unitaria, lineare ed uniforme di ETS, il legislatore delegato ha posto in essere, dal punto di vista della disciplina tributaria applicabile, delle distinzioni che presentano dubbi e criticità, cadendo, altresì, nella fin troppo nota trappola del particolarismo e prediligendo istanze larvatamente anti-abuso. Il Codice del Terzo settore, come anticipato, ha, infatti, previsto un’articolata disciplina con riferimento al profilo soggettivo degli ETS, dettata anche da esigenze di cautela a fronte del rischio di strumentalizzazioni dei diversi regimi agevolativi. In particolare, sul piano definitorio, sono state enucleate diverse categorie di enti valide, sostanzialmente, solamente dal punto di vista tributario [19]: da un lato, infatti, occorre distinguere tra ETS “in generale” (v. retro, par. 2) ed ETS non commerciali e, dall’altro, vengono delineate talune particolari categorie di soggetti ai quali spetta l’applicazione di regimi del tutto peculiari o “super agevolati” [20]. Una prima chiave di lettura, dunque, potrebbe essere quella di considerare che la “decommercializzazione” operi “a valle” rispetto alla natura originaria dell’ente ed al solo fine della applicazione del regime tributario speciale [21]. E, con ogni probabilità, tale strada è l’unica che consente di attribuire una qualche “nobiltà” al magmatico quadro IVA di riferimento (v. infra). È, infatti, chiaro che l’attribuzione del requisito della “non commercialità” fiscale garantisce, sul piano dell’imposizione reddituale, regimi tributari di particolare favore – ben giustificati dalla funzione sociale da essi esercitata – che non presentano particolari profili problematici in termini di giustificazione costituzionale ed europea [22]. Tuttavia, non appare del tutto scontato che la volontà del legislatore, quanto meno sul piano letterale, sia proprio così “cristallina” e che le scelte siano totalmente coerenti. Concentrando, infatti, l’analisi sulla categoria degli ETS non commerciali (ai quali, come anticipato, rinvia, de plano, il novellato art. 10, D.P.R. n. 633/1972), il Codice del Terzo settore identifica [continua ..]
Da quanto precede, emerge un quadro normativo estremamente complesso con riferimento ai profili IVA in quanto pare difficile, prima facie, sostenere che gli ETS non commerciali, così come delineati dal Codice del Terzo settore, esercitino una attività rilevante ai fini IVA secondo la normativa nazionale. La ragione appare immediata ed intuitiva: il D.Lgs. n. 117/2017, da un lato, ha previsto una categoria generale di ETS improntata al modello della imprenditoria sociale (e solamente in ipotesi del tutto marginali “fuori dal mercato”) [24], ma, dall’altro, al tempo stesso, ha disciplinato una figura fiscale di ETS non commerciale alla quale, nella sostanza, è inibita l’attività d’impresa e che deve operare nell’ambito di margini “ristrettissimi”. Quindi, mentre per gli ETS in generale – volendo usare le parole del Consiglio di Stato [25] – l’interesse pubblico dell’attività «può coniugarsi ad una rilevante componente economica tesa ad assicurare, non la mera copertura delle spese sostenute, ma anche un potenziale profitto d’impresa», ciò non vale per quelli non commerciali esclusi dal mercato (in quanto “non imprese”, per espressa voluntas legis). Fermandosi a tale livello di analisi ed approfondimento, occorrerebbe concludere che gli ETS non commerciali non sono soggetti passivi IVA: e ciò a prescindere da una indagine in merito alla rilevanza dell’economicità della gestione, piuttosto che alla diretta applicazione della categoria europea della “attività economica” nell’ordinamento italiano. Appare scontato, infatti, che mancherebbe qualunque ipotetica lesione della concorrenza sul mercato del sociale (come noto assolutamente centrale al fine di individuare la soggettività passiva IVA). Ciò in quanto, come detto, per espressa voluntas legis, le attività di interesse generale devono essere esercitate, prevalentemente, al di fuori dello schema imprenditoriale: è ovvio che se non vi è impresa non può esservi mercato [26]. È altrettanto chiaro che la “non commercialità” tout court, delineata nel Codice del Terzo settore, non è compatibile con l’attuale assetto [continua ..]
Da quanto precede emergono, quindi, istanze di semplificazione, nonché la stringente necessità di superare gli equivoci concettuali ingenerati dal legislatore italiano: la “strada maestra” non può che essere quella di un rinvio diretto e senza indugi alla nozione di attività economica contenuta nella Direttiva – perfettamente compatibile con le caratteristiche delineate dal Codice del Terzo settore, sia per gli ETS “in genere”, sia per quelli non commerciali – e non a quella, di matrice esclusivamente domestica, di attività commerciale (sui problemi definitori v. retro, par. 4). In primo luogo, come noto, il concetto di attività economica, rilevante al fine dell’attribuzione della soggettività passiva, è estremamente ampio [33]: esso, infatti, implica lo «lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità» [34]. Non paiono esservi, peraltro, dubbi che anche le attività finalizzate alla mera copertura dei costi possano rientrare in tale definizione. La rilevanza della economicità della gestione, al fine della qualificazione della attività d’impresa, infatti, è stata oggetto di approfonditi studi, sia in ambito commerciale, sia tributario [35] e prevale l’opinione secondo cui è ravvisabile un’impresa anche nell’ambito di attività che perseguono il mero pareggio di bilancio [36]. D’altro canto, la stessa Direttiva IVA pare inequivocabile nell’affermare che «si considera soggetto passivo d’imposta chiunque esercita in modo indipendente e in qualsiasi luogo un’attività economica indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività». Occorre evidenziare che non vi è unanimità di vedute con riferimento alla diretta applicabilità, o meno, della nozione di attività economica di derivazione europea nell’ordinamento italiano, in quanto taluni autori ritengono che tale categoria (in effetti, estremamente vaga) abbia subito una legittima “mutazione” ad opera dell’art. 4, D.P.R. n. 633/1972 [37]. Il punto è che, nel caso degli ETS, l’unica soluzione che consente di superare i possibili profili di discriminazione ed incompatibilità con [continua ..]
Da quanto precede – e pur tentando di superare, in via interpretativa, gli equivoci concettuali menzionati in precedenza – emerge una “fiscalità iva” del Terzo settore sotto molti profili discriminatoria (e, comunque, davvero scivolosa) se non “incanalata” nei giusti binari. Il problema nasce da una estrema (ed eccessiva) eterogeneità di figure di enti operanti nell’ambito delle attività di interesse generale (e, conseguentemente, in quelle di interesse pubblico esentate dal tributo). La prima distinzione rilevante è quella tra enti pubblici ed enti privati, entrambi pienamente operanti sul “mercato del sociale”. La normativa italiana – a differenza di quella europea incentrata proprio su tale categoria di soggetti – non menziona, espressamente, gli enti pubblici tra i destinatari delle norme di esenzione. Infatti, l’art. 10 non pone alcuna summa divisio tra le categorie degli “altri organismi privati” e gli “enti di diritto pubblico”. Questi ultimi, tuttavia – anche in ragione di un’ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia, nonché della Corte di Cassazione orientata verso una strenua salvaguardia della concorrenza – sono annoverabili, a tutti gli effetti, tra i soggetti passivi d’imposta. L’unico caso in cui viene esclusa la soggettività IVA è quello (limitatissimo, secondo la giurisprudenza) in cui l’ente agisce nell’ambito delle funzioni di diritto pubblico, cioè utilizzando poteri autoritativi preclusi ai privati. È, peraltro, chiarissimo in tal senso l’art. 4 D.P.R. n. 633/1972 laddove dispone che «non sono considerate attività commerciali le operazioni effettuate dallo Stato, dalle regioni, dalle province, dai comuni e dagli altri enti di diritto pubblico nell’ambito di attività di pubblica autorità». Quindi, nel momento in cui l’ente pubblico esercita una delle attività indicate nell’art. 10 nell’ambito di una attività economica, esso si pone sullo stesso piano degli ETS non commerciali ed in piena concorrenza con le altre imprese operanti nel medesimo settore. La normativa italiana, infatti, rinvia a figure prive di qualunque tipizzazione e non riconducibili ad alcuna categoria civilistica o tributaria specifica.Tali [continua ..]
L’unica strada, dunque, per tentare di mitigare i descritti profili di contrasto con il diritto europeo, nonché con il principio di uguaglianza sostanziale, è quello di ricercare nella Direttiva e nella giurisprudenza della Corte di Giustizia una categoria di soggetti “unificante” le diverse tipologie di ETS. Per le ragioni ampiamente esposte in precedenza, infatti, non trova alcuna giustificazione limitare il regime di esenzione agli enti non commerciali che tendono alla “mera sopravvivenza” (ma, al tempo stesso, per esempio, concederlo agli enti pubblici “imprenditori”) invece che a tutti gli ETS e la strada da seguire è quella di individuare un’unica “categoria IVA” di ente operante nell’ambito delle attività di interesse generale. Come detto, infatti, se, da un lato, è pacifico che sia ravvisabile un’attività economica anche in capo ad ETS che perseguono il mero pareggio di bilancio, dall’altro, il punto maggiormente delicato è che ciò non esclude che anche quelli con una elevata marginalità possano essere qualificati come imprese operanti sul mercato del Terzo settore (fermo restando, ovviamente, la necessaria carenza del lucro soggettivo) (v. retro, parr. 4 e 5). Come si è osservato, infatti, «nulla vieta l’esercizio di attività commerciali per gli enti del Terzo settore: non ci sono limiti al conseguimento di un lucro oggettivo o comunque di un risultato economico, anzi una gestione improntata all’economicità avrebbe il pregio di consentire lo svolgimento continuativo dell’attività in maniera quasi del tutto indipendente dalle elargizioni che sono fondamentale fonte di finanziamento degli enti del terzo settore» [49]. Una figura che pare rispecchiare, perfettamente, quella di ETS delineata dalla legge delega e dal Codice del Terzo settore è proprio quella di “organismo a carattere sociale” contenuto nella Direttiva, “perno” attorno al quale ruota tutto il sistema delle esenzioni IVA per le attività di interesse pubblico. Il profilo soggettivo delle esenzioni contenuto nella Direttiva è particolarmente eterogeneo, ma appaiono centrali talune categorie trasversali rispetto al mercato del Terzo settore costantemente richiamate in diversi contesti: [continua ..]
Molti degli equivoci concettuali precedentemente posti in luce derivano da una concezione errata (o, comunque, superficiale) del regime di esenzione IVA il quale viene spesso “imparentato” (e l’espressione è volutamente generica ed “atecnica”) con la fiscalità diretta dell’impresa e con i regimi premiali ad essa associati. Gli ETS non commerciali ai quali fa oggi riferimento il novellato art. 10 del D.P.R. n. 633/1972, infatti, non possono essere dotati delle medesime caratteristiche degli enti destinatari dei regimi agevolativi previsti ai fini delle imposte sui redditi [63]. Il legislatore tributario, con ogni probabilità, non si è avveduto della profonda differenza tra le esigenze del sistema reddituale rispetto a quello dell’IVA. Il punto centrale, infatti, è che le problematiche IVA relative agli enti del Terzo settore sono del tutto “rovesciate” rispetto a quelle che caratterizzano le imposte dirette: mentre con riferimento a queste ultime occorre individuare una giustificazione, anche costituzionale, di regimi agevolativi concessi agli “enti non profit” [64], in ambito IVA i medesimi soggetti vengono sacrificati in favore dei valori promossi e tutelati dalle norme di esenzione (e, dunque, dell’interesse dei destinatari del servizio). L’indetraibilità (totale o parziale) dell’IVA, infatti, costituisce un peso di notevole rilievo per l’impresa, soprattutto, nei rapporti commerciali tra soggetti esercenti un’attività economica [65]. Come si è già avuto modo di osservare, infatti, è l’impresa il soggetto che subisce [66] il regime di esenzione “accollandosi” il debito d’imposta normalmente gravante sul contribuente di fatto, per motivi extra fiscali: l’operatore economico, in virtù di ragioni superiori alle logiche del puro mercato, “si sacrifica” in luogo dello Stato (a cui spetterebbe, invece stanziare le risorse finanziarie), sostenendo il costo della prestazione in termini di indetraibilità del tributo [67]. Le esenzioni IVA di interesse pubblico, infatti, rappresentano, sul piano tributario, uno degli strumenti tipici di attuazione della sussidiarietà orizzontale (v. retro, diffusamente). Tale peculiare modello applicativo del tributo [continua ..]
In conclusione, in ambito IVA la rigida distinzione tra le diverse tipologie di ETS non ha alcuna ragionevole giustificazione e pare necessario adottare, come punto di riferimento, la categoria trasversale degli organismi a carattere sociale dettagliatamente definita dalla Corte di Giustizia (v. retro, par. 7). Questi ultimi – modellati dalla Direttiva IVA sulla falsariga degli enti pubblici – sono, evidentemente, gli “attori protagonisti” della sussidiarietà orizzontale e, come tali, devono essere considerati anche a fini interpretativi in ragione del tipo di attività esercitata. Un trattamento IVA uniforme ed omogeneo dei diversi soggetti pare, dunque, l’unica strada per evitare l’emersione di trattamenti marcatamente discriminatori tra enti pubblici e privati, nonché tra “imprenditori sociali” di natura privata dotati di caratteristiche parzialmente diverse tra loro, ma che non consentono, comunque, l’applicazione di regimi differenziati (v. retro, par. 6). Soprattutto, come si è ampiamente evidenziato, non è corretta la previsione di diversi regimi IVA nei confronti di enti tutti caratterizzati dalla mancanza di lucro soggettivo e dalle medesime finalità. Sarebbe, quindi, stato opportuno (e sufficiente), al fine di sgombrare il campo dai tanti e variegati equivoci, un semplice e netto riferimento agli Enti del Terzo settore i quali rientrano, perfettamente, nelle figure di “Organismi aventi carattere sociale” di origine europea (v. retro, parr. 4 e 7). Ciò avrebbe, certamente, consentito di superare buona parte delle difficoltà interpretative che il rinvio agli ETS non commerciali continuerà ad alimentare. Ed è, proprio il superficiale richiamo a tale carenza di commercialità ad alimentare le maggiori incertezze. È chiaro, infatti, che in ragione del “magmatico” quadro normativo, reso ancora più scivoloso dal legislatore delegato, è necessario porre una distinzione netta tra attività economiche (commerciali) ed attività economiche non commerciali, ma di interesse generale. Non ha, quindi, più tanto senso – quanto meno nella prospettiva del Terzo settore – l’individuazione della soggettività IVA in virtù dell’esercizio di [continua ..]